Non lo so, è così che si fa da queste parti! Suona familiare?

Quante volte abbiamo sentito dire che ‘le aziende devono stare al passo, devono cambiare’… e poi osserviamo e viviamo un non-cambiamento in cui la cultura aziendale e i comportamenti organizzativi rimangono uguali.
Possiamo ascoltare frasi come: ‘Perché qui si fa così’, ‘Lo facciamo da sempre…’ come se il comportamento fosse un’abitudine, un’abitudine consolidata. E proprio l’abitudine è il fattore che ostacola il cambiamento. L’abitudine non permette di chiedersi il perché si faccia qualcosa in quel specifico modo, non consente di mettere in discussione il nostro modus operandi.

Simon Sinek ci stimola a invertire la consuetudine, partendo dal perché facciamo quello che facciamo, per poi presentare il nostro cosa. Simon Sinek ci dimostra che “la gente non compra quello che facciamo, compra il motivo per cui lo facciamo”.

Perché l’abitudine è più forte della potenzialità del cambiamento? Perché è così faticoso partire dal perché?

Un esperimento condotto da Stephenson nel 1967 può aiutarci a comprendere.
Stephenson ha coinvolto 10 scimmie, una gabbia, una banana, una scala e uno spruzzatore di acqua gelata.

Esperimento, prima parte.

5 scimmie sono state chiuse dentro una gabbia, una banana è stata appesa al soffitto ed è stata posizionata una scala in modo che potesse essere utilizzata per raggiungere la banana.
Quando la prima scimmia ha cominciato a salire la scala per prendere il frutto, il ricercatore l’ha spruzzata con acqua gelata. Oltre a spruzzare la scimmia che ha tentato di raggiungere la banana, ha bagnato anche le altre 4 nella gabbia.
Poi, una seconda scimmia ha provato a raggiungere la banana, e anche lei è stata spruzzata con acqua gelata. A turno, casualmente, tutte e 5 le scimmie hanno subito la punizione. La procedura è stata ripetuta fino a quando nessuna delle 5 scimmie ha più tentato di afferrare il frutto.

Esperimento, seconda parte.

Quando più nessuna scimmia agiva per conquistare la banana, è stata introdotta una nuova scimmia nella gabbia e tolta una delle 5 iniziali. La nuova scimmia ha subito tentato di raggiungere la banana ma le altre 4, conoscendo l’esito di quel tentativo, l’hanno assalita, costretta a scendere dalla scala e rinunciare al frutto. Ogni volta che la nuova scimmia ha provato a raggiungere la banana è stata bloccata dalle altre.  Alla fine anche lei, come le altre 4 scimmie, ha rinunciato a mangiare la banana senza mai essere stata spruzzata con l’acqua gelata, quindi senza sapere perché non potesse farlo. A questo punto un’altra scimmia scelta tra le 4 originarie rimaste, è stata sostituita con una nuova. Il nuovo gruppo era composto da 3 delle scimmie iniziali (che sapevano perché non tentare di prendere la banana), 1 scimmia che aveva imparato a rinunciare alla banana a causa della reazione violenta delle altre e 1 scimmia nuova. La scimmia nuova, come previsto, ha tentato di raggiungere la banana. Come era avvenuto con la scimmia precedente, sono state le altre scimmie a impedirle di raggiungere il frutto senza che il ricercatore dovesse spruzzare dell’acqua. Anche la prima scimmia sostituita, quella che non era mai stata spruzzata ma era stata dissuasa dalle altre, si è attivata per impedire che l’ultima arrivata afferrasse la banana.

Esperimento, terza parte.

Ripetendo la procedura di sostituzione delle scimmie inziali con quelle nuove, si è arrivati al caso in cui tutte e 5 le scimmie non erano mai state spruzzate con l’acqua. L’ultima entrata nella gabbia ha tentato di prendere la banana ma le altre 4 l’hanno ostacolata e punita. Stephenson descrive l’atteggiamento inquisitore dell’ultima scimmia arrivata, come se cercasse di capire il perché del divieto di mangiare quella banana così invitante. Nel suo racconto le altre scimmie si sono guardate tra loro, quasi a cercare questa risposta. Il problema è che nessuna delle scimmie presenti la conosceva, perché nessuna era stata punita dallo sperimentatore per averci provato, era stato il gruppo a opporsi.

Una nuova regola era stata tramandata alla generazione successiva, ma le sue motivazioni erano scomparse con il venir meno del gruppo che l’aveva appresa

‘Non lo so, è così che si fa da queste parti! Suona familiare?

 

Bibliografia

Stephenson, G. R. (1967). Cultural acquisition of a specific learned response among rhesus monkeys. In: Starek, D., Schneider, R., and Kuhn, H. J. (eds.), Progress in Primatology, Stuttgart: Fischer, pp. 279-288.

Simon Sinek (2014). Partire dal perché. Come tutti i grandi leader sanno ispirare collaboratori e clienti. Franco Angeli.

http://psiche.org/articoli/lesperimento-delle-5-scimmie-come-si-tramandano-regole/

Argomento ‘che brucia’: il burnout per generosità. 7 modi per essere generosi e non bruciarsi

Mettersi a disposizione degli altri per troppo tempo ed energie rischia di danneggiare noi stessi e le persone che vogliamo aiutare.

Si potrebbe pensare che sarebbe meglio essere egoisti, cioè degli arrivisti nelle interazioni. Il tipico pensiero dell’egoista è: ‘tu cosa puoi fare per me’. L’opposto è uno “generoso.” È qualcuno che inizia gran parte delle interazioni chiedendo: “Cosa posso fare per te?”

Negli ultimi anni, gli studiosi in ambito organizzativo si sono posti sempre più spesso la domanda su quali siano gli effetti di avere per colleghi persone più o meno “generose” (tra questi lo studioso Adam Grant).

Adam Grant ha intervistato oltre 30.000 persone in aziende di tutto il mondo. Ha trovato che molte persone sono proprio nel mezzo tra chi dà e chi prende. Scelgono questo terzo stile detto “mediatore.” Se fossimo un mediatore, proveremmo a tenere un equilibrio tra dare e prendere: quid pro quo: farò qualcosa per te se farai qualcosa per me. Questo sembra un modo sicuro per vivere la propria vita. Ma è il modo più efficace e produttivo per vivere la propria vita? …forse.

Grant ha studiato la produttività di ingegneri, i voti degli studenti di medicina, il fatturato di agenti di commercio… E inaspettatamente, i peggiori in ognuno di questi lavori erano i generosi. Gli ingegneri che realizzavano meno “lavoro” erano quelli che facevano più favori di quanti ne ricevessero. Erano così intenti a fare il lavoro degli altri, che non avevano più tempo ed energia per completare il proprio. Nella scuola di medicina, i voti più bassi erano degli studenti che concordavano di più con frasi come: “Mi piace aiutare gli altri”, il che implica che il medico di cui ti dovresti fidare è uno che ha concluso la facoltà di medicina con nessun desiderio di aiutare altri. Anche nelle vendite, gli incassi più bassi erano dei commessi più generosi. Quanti di noi si stanno identificando con l’ingegnere, o lo studente, o il venditore?

La svolta: le persone generose spesso si sacrificano, ma rendono la propria organizzazione migliore. Quanto più le persone aiutano e condividono la propria conoscenza e forniscono una guida, tanto migliori sono i risultati dell’azienda: maggiori profitti, soddisfazione del cliente, permanenza del personale — anche più bassi costi di gestione. I generosi passano molto tempo provando ad aiutare gli altri e a migliorare il gruppo, e purtroppo ne risentono lungo la strada.

Se i generosi sono quelli che riescono peggio, chi sono i migliori? Non sono gli egoisti. Gli egoisti tendono a salire ma anche a cadere rapidamente in molti lavori. E cadono per mano dei mediatori. Se sei un mediatore, credi in “occhio per occhio” — un mondo giusto. E quando incontri un egoista, senti che la tua missione nella vita è punire quella persona buttandola fuori. In questo modo giustizia è fatta.

La maggioranza delle persone sono mediatori. Significa che se sei un egoista, alla fine si adeguerà a te; ognuno raccoglie ciò che semina. E quindi la logica conclusione è: quelli che riescono meglio devono essere i mediatori. Ma non lo sono. In ogni lavoro, in ogni organizzazione che Adam Grant ha studiato, I MIGLIORI RISULTATI SONO ANCORA DEI GENEROSI.

I generosi vanno da un estremo all’altro. Rappresentano la maggior parte di quelli che guadagnano meno, ma anche di più. Lo stesso schema valeva per la produttività degli ingegneri e per i voti degli studenti di medicina. I generosi sono molto presenti in fondo e al vertice di ogni tipo di successo che ha misurato.

Queste persone sono quelle più valide, ma se non sono attente, si esauriscono. Adam Grant ha imparato una importante lezione dal miglior networker secondo Fortune. Il suo nome è Adam Rifkin. È un imprenditore di successo che utilizza molto del suo tempo aiutando altre persone. La sua arma segreta è il favore da cinque minuti. Rifkin ha detto: “Non devi essere Madre Teresa o Gandhi per essere un generoso. Devi solo trovare piccoli gesti per dare valore alla vita delle altre persone“. Quei favori di cinque minuti sono davvero importanti per aiutare i generosi a fissare dei confini e proteggersi.

Se anche tu pensi di ‘bruciare per generosità’, qui una lista che gli studiosi Grant e Rebele hanno stilato per aiutarci a continuare ad essere generosi (perché fa bene, sia a noi sia al mondo intero) senza bruciarsi.

7 abitudini comportamentali dei giver (i generosi che non si bruciano).

  1. Stabilire le priorità alle richieste di aiuto
  2. Dare in modo strategico: seguendo i propri interessi e punti di forza
  3. Distribuire il carico di donazione in modo più uniforme (delegare le richieste agli altri quando non si hanno il tempo o le competenze, e fare attenzione a non rafforzare i pregiudizi di genere su chi aiuta e come).
  4. Assicurare per prima cosa la propria maschera di ossigeno: si aiuta gli altri in modo più efficace se non si trascurano le proprie esigenze.
  5. Amplificare il proprio impatto cercando modi per aiutare più persone con un singolo atto di generosità.
  6. Organizzare il proprio dare in giorni o blocchi di tempo dedicati piuttosto che spargerlo per tutta la settimana. Si è più efficaci e più concentrati.
  7. Imparare a individuare coloro che prendono solo e starne lontani. Sono un salasso per la propria energia, e un rischio per le proprie prestazioni professionali.

 

Tratto da:

https://www.ted.com/talks/adam_grant_are_you_a_giver_or_a_taker?language=en

Grant, A. & Rebele, R. (2017). Beat generosity burnout. Harvard Business Review. [online] https://hbr.org/cover-story/2017/01/beat-generosity-burnout

 

Ringrazio i miei cugini e un gruppo di lavoratori che hanno partecipato ad un workshop su Come vincere lo stress per avermi sollecitato su questo argomento.

E se fosse proprio la nostra stessa esperienza (anche traumatica, negativa) a precluderci il successo?

Pensiamo alle nostre esperienze di vita: sono di più quelle positive o quelle negative?
Idealmente le esperienze positive (che ricordiamo e vogliamo ricordare) dovrebbero essere predominanti. Perché?

Purtroppo, gran parte dei ricordi di molte persone è costruita su stati negativi. In questi casi la negatività penetra profondamente, si acuisce e intossica la mente, tanto che le reazioni tendono a essere esagerate rispetto all’effettiva realtà. Secondo gli psicologi Martin Seligman e Steven Sauter l’essere umano può acquisire «un atteggiamento di impotenza appresa». Cosa significa?

Seligman identificò un fenomeno imprevisto utilizzando le tecniche di Pavlov (il classico condizionamento) in alcuni esperimenti sui cani. Il fisiologo russo Ivan Pavlov aveva notato che quando ai cani veniva portato del cibo la loro salivazione aumentava. Poi scoprì che salivavano anche al suono di un campanello che preannunciava il cibo, e infine al solo suono del campanello, senza che alcun cibo fosse loro servito. I cani avevano ormai imparato ad associare il campanello al cibo.

Nel suo esperimento, invece di associare campanello e cibo, Seligman collegò il suono del campanello a una scossa innocua, imprigionando il cane in una specie di amaca durante la fase di apprendimento. L’idea era che dopo avere appreso tale associazione, il cane avrebbe dovuto provare paura al suono del campanello, fuggendo o manifestando qualche altro comportamento per evitare la scossa. Poi Seligman ripeté l’esperimento mettendo il cane che aveva subito il condizionamento in una gabbia divisa in due da un basso divisorio, una parte elettrificata, l’altra no. L’animale avrebbe potuto facilmente saltare il divisorio se avesse voluto, ma quando il campanello suonò non fece nulla. Lo scienziato decise allora di dare un’altra scossa al cane, e poi un’altra ancora, ma non accadde nulla: l’animale rimaneva nella sua posizione. Infine, quando Seligman mise nella gabbia un cane non condizionato, come previsto questo saltò immediatamente nell’altro lato. Quello che il cane condizionato aveva appreso quando si trovava nell’amaca era che scappare sarebbe stato inutile, pertanto non ci provava nemmeno quando le circostanze lo rendevano possibile. Il cane aveva imparato a essere impotente e passivo, in altre parole era diventato un ostaggio.

La teoria dell’impotenza appresa fu in seguito estesa al comportamento umano e fornì un modello per spiegare una condizione caratterizzata dalla mancanza di controllo sulla propria vita, uno stato di indifferenza e insensibilità. L’essere umano può imparare ad essere impotente, quando crede che qualunque iniziativa intrapresa sia inutile. Il sentimento di impotenza appresa produce conseguenze a livello cognitivo, motivazionale e emozionale.

Chi permette ai propri pensieri di diventare negativi tende a considerare la propria situazione senza uscita, più di chi ha una mentalità positiva. Purtroppo, molti di noi diventano ostaggi a causa della passività, sopportando il dolore — come i cani di Seligman — e senza riuscire a capire che possediamo la forza di reagire. Sentirsi impotenti avvelena l’individuo avvolgendolo in un senso di inadeguatezza o intrappolamento. Il veleno crea un ciclo di continue interpretazioni negative della realtà.

Possiamo cogliere il veleno nel nostro stato mentale semplicemente ascoltando le parole che usiamo. Ecco alcune frasi:

  • Non ho scelta
  • Sono in trappola
  • Mi sento malissimo
  • È una cosa che odio
  • Sarà un’altra di quelle giornate…

Simili frasi sono tipiche di un dialogo negativo con noi stessi, e nascono dal nostro mondo interiore. Tale dialogo, che avviene nella nostra mente, può tenerci in ostaggio oppure aiutarci a gestire la situazione. Sentiamo di essere in ostaggio quando avvertiamo che siamo costretti a fare qualcosa che non vogliamo fare, dopodiché manteniamo un’attitudine negativa. Una mentalità da ostaggio si fissa sugli elementi negativi, mostrandoci di continuo quello che non possiamo fare, quanto siamo impotenti e che non riusciremo mai a ottenere ciò che vogliamo.

E se un amico ci dicesse ‘starò sempre male’… ‘non sarò mai felice’, noi possiamo aiutarlo a riformulare la frase, ad esempio, con ‘ora sto male e questo dolore lo proverò ogni tanto’.
Possiamo cogliere l’opportunità di controllare il nostro linguaggio e, quindi, il nostro atteggiamento verso la vita e sviluppare nuove strategie di successo?

A noi la scelta!

 

Tratto da:

George Kohlrieser, 2011, La scienza della negoziazione. Come gestire i conflitti e avere successo (nella vita e nel lavoro), Sperling & Kupfer, pp.11-32.

Sheryl Sandberg & Adam Grant (2017). Option B. Affrontare le difficoltà, costruire la resilienza e ritrovare la gioia. HaperCollins.

Foto tratta da: https://www.linkedin.com/pulse/limpotenza-appresa-ossia-la-corda-dellelefante-andrea-laudadio/

Tutto ha almeno due facce

Oggi ci arricchiamo attraverso l’esperienza di Ed Viesturs, uno dei pochi alpinisti al mondo a riuscire nell’impresa di scalare tutti i 14 ottomila in “stile alpino”, ovvero con una attrezzatura leggera e senza l’ausilio di ossigeno supplementare. Le sue parole sono tratte dal libro K2, La montagna più pericolosa della terra.

‘Sono stupito. Ogni storia può essere raccontata in dozzine di modi diversi. Per questo stesso motivo credo che ogni volta che riesaminiamo un capitolo importante della nostra vita, impariamo qualcosa di nuovo.’

Queste sue parole ricorda a noi uomini un principio cardine: tutto ha almeno due facce. Cosa significa per noi manager (inteso come manager di noi stessi)?

Due commercianti di scarpe partono da Manchester per avviare un giro d’affari in Africa. I due, dopo essere arrivati a destinazione ed essersi guardati un po’ intorno, scrivono due telegrammi al loro capo. Il primo scrive: ‘siamo spacciati, nessuno porta le scarpe’. Il secondo scrive: ‘grandissima opportunità, nessuno porta le scarpe!’

Noi a chi assomigliamo tra questi due commercianti?

Tendenzialmente il 90% degli esseri umani vede il negativo, il problema (e le sue difficoltà e anche il fallimento); c’è anche il 10% che è capace di vedere il positivo, l’opportunità nel problema (e affrontare la realtà in modo alternativo, creativo). Quando un venditore presentando il suo prodotto dice: ‘questo taccuino costa 10 euro’ cosa sentiamo? E quando un venditore dice: ‘questo taccuino vale 10 euro’ cosa sentiamo? È sempre lo stesso taccuino da 10 euro.

Qual è la qualità del Manager che quando il 90% delle persone attorno a lui vede negativo, lui/lei vede nella stessa identica situazione il positivo? Che tipo di comportamento attiverà? I suoi collaboratori come si sentiranno? Che clima organizzativo creerà? Quale motivazione starà vivendo?

Perché quel Manager riesce a vedere il positivo, l’opportunità nel problema? Perché ha avuto una vita tutta ‘rosa e fiori’? Un manager che ho incontrato lo ha spiegato così, utilizzando una metafora del suo paese. ‘Due gemelli. Un padre violento, ubriaco, abusatore. Un figlio, divenuto adulto, è drogato, ubriaco, violento. Gli si chiede il perché e lui risponde: ‘Ho visto mio padre’. L’altro figlio, divenuto adulto, è medico, pacifico, che aiuta gli altri. Gli si chiede il perché e lui risponde: ‘Ho visto mio padre’.

Ora riesaminando un capitolo della nostra vita, cosa possiamo imparare? Oggi quale commerciante vogliamo essere? Che figlio/a, padre, madre vogliamo diventare?

Sta a noi la scelta di vedere il positivo!

Come dice Stephen W. Hawking: Per quanto difficile possa essere la vita, c’è sempre qualcosa che è possibile fare. Guardare le stelle invece dei nostri piedi.

Perché abbiamo iniziato a fare quello che facciamo?

Che cosa possiamo fare per realizzare il nostro ideale?

 

Conoscere il nostro PERCHÉ non è l’unico modo per avere successo, ma è l’UNICO modo per conquistare un successo duraturo. Quando il nostro perché diventa confuso, è molto più difficile mantenere la crescita. Invece di chiederci ‘Che cosa dobbiamo fare?’, potremmo chiederci: Perché abbiamo iniziato a fare quello che facciamo? E poi chiederci: che cosa possiamo fare per realizzare il nostro ideale?

Nei giorni scorsi c’è stata la festività di Ogni Santi e abbiamo ricordato i nostri cari, e sicuramente ci è sovvenuto qualche ricordo, una memoria, un insegnamento… qualche cosa di immateriale che ci hanno lasciato. E noi, cosa vogliamo lasciare? Perché facciamo quello che facciamo? Qual è la nostra legacy (che non è solo la nostra eredità economica… è quel qualcosa in più).

“Se qualcuno di voi sarà qui nel giorno della mia morte, sappia che non voglio un grande funerale. E se incaricherete qualcuno di pronunciare un’orazione funebre, raccomandategli che non sia troppo lunga. Ditegli di non parlare del mio premio Nobel, perché non ha importanza… Dica che una voce gridò nel deserto per la giustizia. Dica che ho tentato di spendere la mia vita per vestire gl’ignudi, per nutrire gli affamati, che ho tentato di amare e servire l’umanità” (Martin Luter King)

Queste parole furono pronunciate al sermone del 4 febbraio nella Chiesa di Ebenezer. Il 4 aprile 1968 Martin Luther King fu assassinato

 

Prendiamoci qualche minuto e chiediamoci ‘Perché facciamo quello che facciamo?’ E cosa vogliamo lasciare ai nostri ‘figli’… Partire dal perché è il cuore della nostra motivazione.
‘When you’ve lost your why, you’ve lost your way’ (quando perdiamo il nostro perché, perdiamo la nostra via)

 

 

Simon Sinek (2014). Partire dal perché. Come tutti i grandi leader sanno ispirare collaboratori e clienti, Franco Angeli.

Tre modi per rendere piacevole un lavoro noioso-stupido

Ci è mai capitato di rincasare dopo una giornata lavorativa esausti? Con mal di testa, mal di schiena e l’unica voglia è quella di andare a letto… Poi il telefono squilla: il nostro migliore amico ci invita (e supplica) ad uscire. Con poca voglia usciamo. E quando rincasiamo siamo pieni di energia, il mal di testa è passato e così allegri che quasi non abbiamo sonno.
Cosa è successo? Sicuramente quando siamo tornati a casa dal lavoro eravamo spossati. Spossati anche perché annoiati dal lavoro (e forse anche un po’ dalla vita). La ricerca dimostra che una delle principali cause della stanchezza è la noia. In uno degli esperimenti in merito, il dottor Barmack assegnò a degli studenti compiti non interessanti. Il risultato? Si stancarono, erano irascibili e si lamentarono di mal di testa, dolori agli occhi e anche mal di stomaco. La scienza medica mostra che quando una persona è annoiata, la pressione arteriosa e il consumo di ossigeno decresce. La noia stanca di più dello sforzo fisico. Lo stesso psicologo Thorndike nei primi del Novecento scrisse: ‘La noia è la vera causa della minore produttività’.

Noi lavoratori intellettuali quando ci stanchiamo di più? Per la quantità di lavoro che facciamo o per la quantità di lavoro che non facciamo (perché interrotti, perché ci capitano imprevisti…)? Cosa ci dice questa esperienza che, purtroppo, tutti noi abbiamo vissuto? La nostra stanchezza è spesso provocata non dal lavoro, ma dall’ansia, dalla preoccupazione del lavoro (quello che noi chiamiamo stress).

Come ci sentiamo quando, invece, stiamo facendo un lavoro interessante e appassionante? Il tempo fugge, siamo pieni di energia e siamo felici, viviamo quell’attività con meno ansia e meno stanchezza. Csikszentmihaly, negli anni ‘70-‘80, ha presentato, e dimostrato, il concetto di flow (flusso). Una persona vive il flow quando è completamente immersa in una attività, focalizzata sull’obiettivo, con una forte motivazione intrinseca, ed è gratificata nello svolgimento di un particolare compito. Possiamo essere così fortunati di fare solo cose che ci piacciono? Si narra che Leonardo da Vinci disse che ‘il vero successo non è fare solo ciò che ci piace, ma tutto quello che facciamo farlo con gioia’. A noi la scelta di affrontare con gioia ed entusiasmo ciò che facciamo, anche quella attività che meno ci piace.

Come rendere interessante un lavoro stupido? Tre possibilità:

  1. Una segretaria (che chiamiamo Lisa) lavorava per una società petrolifera (a Tulsa, Oklahoma) e per parecchi giorni al mese, doveva fare il lavoro più stupido che ci fosse: riempire delle tabelle con una sfilza di cifre e di statistiche. Era un lavoro noiosissimo, ma lei decise di farselo piacere. Come? Faceva una gara con se stessa. Contava il numero delle tabelle che riempiva ogni mattina e cercava di superare quel numero nel pomeriggio. Contava il totale della giornata e cercava di superarlo il giorno dopo. Il risultato? In breve riuscì a rimpire un numero di quelle odiose tabelle di gran lunga maggiore di qualsiasi altra impiegata del suo reparto. E cosa ne ricavò? Un riconoscimento? No… Ringraziamenti? No… Promozioni? No… Aumento dello stipendio? No… Si evitò la stanchezza alimentata dalla noia. Ebbe uno stimolo intellettuale.
    Vogliamo essere come Lisa, evitare la noia creando uno stimolo? A noi la scelta. (Non tutto quello che facciamo al lavoro è divertente).
  2. Il maestro psicologo e filosofo William James (1842-1910) consigliava di agire ‘come se’ fossimo coraggiosi, se volevamo essere coraggiosi, di agire ‘come se’ fossimo felici, se volevamo essere felici. Agendo ‘come se’ il nostro lavoro ci piacesse, alla fine ci piacerà (e ridurrà la stanchezza, il nervosismo e l’ansia). Perché ci piacerà? Per una ‘questione di chimica’: le endorfine. Le endorfine vengono prodotte nel lobo anteriore dell’ipofisi del cervello umano in risposta a determinati stimoli e attività. E come stimolare le endorfine? Ci sono metodi naturali come: ascoltare musica, suonare uno strumento, accarezzare un animale domestico, fare sport… e, al lavoro, possiamo sorridere. Ridere e sorridere, anche forzatamente se serve (e non solo per alcuni secondi), è una delle abitudini più sane che possiamo praticare per aiutare il nostro cervello a rilasciare endorfine. I bambini ridono circa 400 volte al giorno mentre alcuni adulti anche solo 5 volte in un giorno (sicuramente conosciamo qualche adulto che ride poco!). Il sorriso, oltre a rilasciare ormoni, riduce il cortisolo e il ritmo cardiaco (cioè stress). Agire come se fossimo felici sorridendo, aiuta.
  3. Marco Aurelio scrisse nelle sue Meditazioni (179 d.C.): ‘La nostra vita è quella che i nostri pensieri vanno creando’. Se noi non lo pensiamo, non lo creiamo. Quando ci alziamo al mattino, cosa pensiamo, quali discorsi facciamo tra noi e noi? Pensiamo a quanto noi non valiamo, a quanta fatica faremo oggi o pensiamo a quanto oggi possiamo essere coraggiosi, alla gioia di fare? Possiamo allenare i nostri pensieri e questo renderà il nostro lavoro meno penoso. E non per il capo, per il collega, per il cliente… per noi. Cosa succede al termine della giornata se non troviamo gioia in quello che facciamo?

Possiamo allenarci a vincere i nostri limiti, a creare pensieri per un destino più felice (ed è economicamente più intelligente essere positivi).

 

A noi la scelta di annoiarci o trovare un modo per farcelo piacere.

 

Tratto da: Dale Carnagie (2016 edz). Come vincere lo stress e cominciare a vivere. Rizzoli, pp.258-265

Come far dipingere la staccionata?

Le avventure di T o m S a w y e r   di   M a r k T w a i n.   Tom deve svolgere il noioso compito di imbiancare la staccionata di 75 mq della zia Polly. Non è esattamente entusiasta dell’incarico. ‘La vita gli apparve vuota e l’esistenza solo un fardello’.

Ma proprio quando Tom ha quasi perso la speranza, viene colto niente meno che da una grande e magnifica ispirazione’.  Quando il suo amico Ben gli si avvicina e lo prende in giro per la sua cattiva sorte, Tom si comporta in modo imprevisto. Gli dice che dipingere una staccionata non è un compito di poco conto. È un privilegio fantastico, una specie, come dire, di motivazione intrinseca (vedi Cosa ci fa alzare il lunedì). Il lavoro è così affascinante che quando Ben gli chiede di poter provare a fare qualche pennellata, Tom rifiuta. E non cede finché Ben non gli offre la sua mela in cambio di quella possibilità.

Presto arrivano molti altri ragazzi, che cadono tutti nella trappola di Tom e finiscono per dipingere al suo posto la staccionata, dando persino più mani di bianco. Da questo episodio, Twain ricava un principio di base della motivazione, ovvero che ‘il lavoro consiste in tutto ciò che una persona è obbligata a fare, mentre il divertimento consiste in tutto ciò che una persona non è obbligata a fare’.

Le ricompense possono produrre una strana sorta di alchimia comportamentale: possono trasformare un compito interessante in uno noioso. Possono trasformare il divertimento in lavoro. E indebolendo la motivazione intrinseca possono far cadere come pedine del domino performance, creatività e persino un’azione nobile.

Abbiamo mai vissuto l’effetto Sawyer?

Riusciamo a creare come Tom situazioni positive per noi stessi e per gli altri?

Del resto che differenza c’è tra il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto se non la nostra definizione della situazione in cui si trova il bicchiere che sta davanti?

Noi non siamo disturbati dalle cose, ma dall’opinione che ci facciamo delle cose (Epitteto).

A noi la scelta!

Prossimamente un blog su Come rendere piacevole un lavoro noioso-stupido.

Effetto Sawyer tratto da Daniel Pink (2010), Drive, RCS Libri, pp.23-24.

Restare prigionieri o scegliere come agire? 5 strategie per non essere sequestrati dall’Amigdala

Che cos’è l’amigdala? È una parte del cervello dell’uomo, un agglomerato di strutture interconnesse a forma di mandorla, specialista in materia di emozioni.  È proprio lei, l’Amigdala, che ci può salvare la vita (in situazioni di emergenza) per la sua capacità di reagire con tempi di reazione da primato ed è sempre lei a sequestrare il nostro cervello, prenderlo in ostaggio e farci dire qualche cosa di poco saggio, aggravare una situazione, portandoci anche alla violenza.

È l’amigdala che ci fa perdere la trebisonda (vedi 3 MODI per avere il pesce più grosso per cena), permette al Neanderthal che c’è in ognuno di noi di agire e ci fa diventare più stupidi.

Daniel Goleman ha coniato il termine ‘sequestro dell’amigdala’ (amygdala hijack) basandosi sul lavoro del neuro-scienziato Joseph LeDoux, che ha dimostrato che alcune informazioni emozionali viaggiano direttamente dal talamo all’amigdala senza passare dalla neocorteccia. Ciò provoca una forte reazione emotiva che precede un pensiero più razionale. È una risposta emozionale immediata e travolgente con una successiva realizzazione che la risposta è stata inopportuna, come se il nostro cervello pensante avesse vissuto un corto circuito.

Perché questo accade? Centinaia di migliaia di anni fa questo tipo di risposta emozionale immediata è servita ad uno scopo nobile: la sopravvivenza. Immaginiamo di essere nel bosco a raccogliere cibo per la nostra famiglia. Ad un tratto ci ritroviamo faccia a faccia con una creatura gigantesca, a quattro zampe e anche lei sta cercando uno ‘spuntino’. In questa situazione, il nostro cervello non perderebbe tempo nel pensiero razionale. Grazie al sequestro dell’amigdala avremmo preso la decisione immediatamente per migliorare le nostre chance di sopravvivenza (scappare via o combattere).

Oggi non ci ritroviamo più con questi tipi di animali a quattro zampe… abbiamo a che fare con automobilisti incapaci, capi e colleghi irresponsabili, bambini maleducati… che ci fanno perdere la trebisonda! E nel momento in cui la trebisonda è persa, da persone intelligenti diventiamo persone stupide, la nostra mente ‘si congela’ e in quel momento il nostro quoziente intellettivo si abbassa di 10-15 punti. Matthew Lieberman, un neuro-scienziato, ha trovato una relazione inversa tra l’attivazione dell’amigdala e la corteccia prefrontale (la corteccia prefrontale è implicata nella pianificazione dei comportamenti cognitivi complessi, nell’espressione della personalità, nella presa delle decisioni e nella moderazione della condotta sociale). Quando l’amigdala è all’opera, sangue e ossigeno vi affluiscono con abbondanza e l’attività nella corteccia prefrontale diminuisce. La nostra abilità di pensare viene interrotta e si verificano deficit nel prendere decisioni; infatti il sangue e l’ossigeno sono nell’amigdala anziché nella corteccia prefrontale (c’è anche il detto ‘quando una persona si arrabbia, le va il sangue al cervello’).

Restare prigionieri-sequestrati o scegliere come agire? Anche se abbiamo perso la trebisonda (cioè l’amigdala ha sequestrato il nostro pensiero) possiamo ancora scegliere. Dopotutto, le sostanze chimiche nel nostro cervello, se decidiamo di agire, non persistono – si disperderanno in tre o sei secondi. Il rimedio è quello di 1) rallentare e 2) esercitare modelli-strategie che non innescano maggiormente l’amigdala. La scienza ci dimostra che in circa sei secondi, il cervello corticale può recuperare e creare un pensiero conscio di risposta.

Come ridurre al minimo i danni derivanti dal sequestro dell’amigdala? Quali sono le strategie-modelli di aiuto?

  1. Strategia ‘Pausa di Sei Secondi’.
    Abbiamo bisogno di una pausa di sei secondi! E il cervello deve concentrarsi nel creare un pensiero corticale. Ad esempio per almeno 6 secondi focalizzarsi su un compito di matematica, o di lingua straniera, o di analisi o di altri pensieri cognitivi ad alto livello. E nel momento in cui ‘l’esercizio’ diventa “troppo semplice”, crearne uno nuovo per mantenere il cervello impegnato.
    Alcuni esempi di “Pausa di sei secondi”:

    • Nominare sei dei sette nani in ordine alfabetico.
    • Elencare sei gruppi musicali i cui nomi iniziano con la lettera “b”.
    • Elencare sei attori-attrici preferiti e i film in cui hanno recitato
    • Pensare a sei località esotiche dove vorremo svolgere un training sull’intelligenza emotiva
    • _____________________________________
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  2. Strategia ‘Sei secondi per respirare’.
    6 respiri profondi, pensare a 6 cose divertenti che si vorrebbe fare durante il fine settimana o pensare a qualcosa che ci aiuterà a concentrarci su qualcos’altro fino a quando ci sentiamo più calmi.
  3. Strategia ‘Usare l’umorismo ed empatia’per neutralizzare la discussione.
    Se qualcuno ci interrompe violentemente al lavoro, possiamo pensare “A me è mai successo di interrompere qualcuno in passato?” E quando interagiamo con questo persona, scherzare un po’ e mostrare empatia quando anche qualcun’altro commette errori.
  4. Strategia ‘Individuare lo stimolo’ che ha causato il dirottamento dell’amigdala.
    Questa strategia può aiutare la persona a pensare e facendo questo mantiene la corteccia prefrontale attiva e coinvolta nel processo anziché consentire all’amigdala il controllo totale.
  5. Strategia ‘Dopo che la situazione è passata, pensare di più’.
    Se non coinvolgiamo la corteccia, l’amigdala opera con le informazioni del passato. Se riusciamo a identificare le cause scatenanti (detonatori), possiamo riflettere a mente fredda, crearci nuove strategie da usare nel momento in cui le stesse cause scatenanti dovessero manifestarsi.

Restare prigionieri-sequestrati o scegliere come agire? A noi la scelta!

 

Bibliografia
https://www.veterinaryteambrief.com/article/retrain-your-brain-learn-amygdala-hijack

https://www.psychologytoday.com/blog/leading-emotional-intelligence/201104/where-did-my-iq-points-go

https://www.psychologytoday.com/files/attachments/51483/handling-the-hijack.pdf

3 MODI per avere il pesce più grosso per cena

Dall’angolo dell’Isolato Giocondo sbucò allora Billy Visone. Quel giorno si sentiva proprio in forma, Billy Visione, soddisfatto del mondo in generale e di se stesso in particolare.

Arrivato allo Stagno del Sorriso, Billy Visone si tuffò e raggiunse a nuoto il Grande Scoglio. Qui lo aspettavano Joe Lontra e, poco distante, pigramente a mollo nell’acqua, Jerry Topo Muschiato.
‘Ciao, Billy Visione!’ gridò Joe Lontra. ‘Ciao a te, rispose Billy Visone, sghignazzando.

‘Dove stai andando?’ chiese Joe Lontra. ‘In nessun posto in particolare’, rispose Billy Visone. ‘Allora perché non ce ne andiamo a pescare sul Grande Fiume?’ disse Joe Lontra. ‘Sì, ottima idea!’ gridò Billy Visone, e si tuffò dal punto più alto del Grande Scoglio.

Fu così che si incamminarono lungo il Verde Prato alla volta del Grande Fiume. A metà strada si imbatterono in Reddy Volpe.

‘Ciao Reddy! Ti va di venire con noi a pescare nel Grande Fiume?’ gli gridò Billy Visone. Dovete sapere che Reddy Volpe era tutt’altro che un pescatore provetto, anche se poi era ghiottissimo di pesce. Gli tornò in mente l’ultima volta che erano andati insieme a pescare, quand’era caduto nello Stagno del Sorriso e Billy Visone lo aveva preso in giro per tutto il santo giorno. Stava per dire ‘No’, ma ci ripensò. ‘D’accordo’, disse Reddy Volpe, ‘vengo’. Dovete sapere che invece Billy Visone e Joe Lontra erano dei pescatori provetti, e nuotavano più veloce dei pesci stessi. Reddy Volpe, dal canto suo, oltre a non essere un pescatore provetto non se la cavava granché a nuotare. Giunti in riva al Grande Fiume, i tre amici scrutarono con attenzione il fondo dell’acqua. E, su una secca sabbiosa vicino alla riva, videro un banco di pesciolini striati che giocavano. Mentre Billy Visone e Joe Lontra si tuffavano in acqua per acchiappare i pesciolini, Reddy Volpe indugiò sulla riva, chiedendosi se valesse la pena di rischiare un’altra figuraccia.

Ma Billy Visone cominciò a burlarsi di Reddy Volpe.

‘Buh! Tu non sai pescare, Reddy Volpe! Se io non fossi capace di acchiappare i pesci neppure quando mi arrivano tra le mani, non avrei la faccia tosta di andare a pescare con gli amici’. Reddy Volpe si finse indignato. ‘Ascolta quello che ti dico, Billy Visone. Se oggi non riuscirò a prendere più pesci di te mi impegno a portarti il pollo più grasso di tutta l’aia del Fattore Brown; ma se prenderò più pesci di te allora dovrai darmi il più grosso dei pesci che avrai preso tu. Ci stai?’ Dovete sapere che Billy Visone era molto ghiotto di polli grassi e adesso c’era la possibilità di averne uno senza rischiare di farsi sbranare da Bowser il Segugio, che faceva la guardia ai polli del Fattore Brown. Perciò Billy Visone accettò, e, mentre accettava, rideva tra sé e sé, perché come sapete Billy Visone era un pescatore provetto e sapeva benissimo che Reddy Volpe non amava granché l’acqua ed era tutt’altro che un pescatore provetto.

Giunsero quindi davanti a una secca simile alla prima. E vi trovarono un altro banco di pesciolini che giocavano. Ancora una volta Reddy Volpe indugiò a lungo sul greto del fiume, mentre gli altri si tuffavano e sospingevano verso la riva i pesciolini. Ancora una volta Reddy Volpe ne prese mezza dozzina, mentre stavolta Billy Visone e Joe Lontra riuscirono a prenderne soltanto uno a testa. Quando s’era trattato di prendere l’ultimo, il più piccolo, Reddy Volpe aveva finto di darsi un gran daffare, sicché Billy Visone non aveva sospettato alcun trucco.

Ma per il resto della giornata la pesca fu miserella. Quando Mamma Tramontana sbucò dal Verde Prato per radunare le proprie figlie, le Brezzoline Allegre, e portarle nella casa dietro le Colline Amaranto, i tre pescatori cominciarono a contare i pesci che avevano preso. A quel punto Reddy Volpe tirò fuori tutto il pesce che aveva nascosto. Quando videro il mucchio di pesci di Reddy Volpe, Billy Visone e Joe Lontra furono così sbalorditi che gli occhi gli uscirono dalle orbite e la mascella gli cascò sul petto.

Reddy Volpe si avvicinò al grosso luccio di Billy Visone e, presolo, lo aggiunse al proprio mucchio. ‘Che stai facendo col mio luccio?’ gridò Billy Visone, furibondo. ‘Questo luccio non è tuo, è mio!’ ribatté Reddy Volpe.

Billy Visone era fuori di sé per la rabbia. ‘Non è tuo! – strillò. – È mio, perché l’ho preso io!’ ‘Già, però eravamo d’accordo che se io avessi preso più pesci di te mi sarebbe spettato il tuo pesce più grosso. Io ne ho presi quattro volte più di te, e quindi il luccio è mio,’ ribatté Reddy Volpe, strizzando l’occhio a Joe Lontra.

Allora Billy Visone fece una cosa proprio stupida: perse la trebisonda. E, persa la trebisonda, cominciò a insolentire Reddy Volpe. Tuttavia non osava riprendersi il luccio, poiché Reddy Volpe era molto più alto e robusto di lui. E allora si arrabbiò talmente tanto che scappò via abbandonando i pesci che aveva preso.

Reddy Volpe e Joe Lontra badarono di non toccare il gruzzolo di Billy Visone, e Reddy Volpe spartì con Joe Lontra il proprio pingue bottino. Quand’ebbero finito se ne tornarono a casa, Reddy Volpe portando con sé il grosso luccio.

A notte fonda, quando infine riuscì a calmarsi, Billy Visone cominciò a patire i morsi della fame. Più pensava al suo pesce e più fame gli veniva.

Tornò nel punto dove così stupidamente si era fatto prendere dalla rabbia, e ci arrivò giusto in tempo per vedere l’ultimo pesciolino striato finire nel capiente gargarozzo di Mr. Airone Notturno.

E fu così che Billy Visone andò a letto senza cena. Ma aveva imparato tre cose molto importanti, tre cose che non avrebbe mai più dimenticato: primo, che spesso l’ingegno conta più dell’abilità; secondo, che farsi beffe del prossimo è una cosa non solo scortese ma anche assai stupida; terzo, che perdere la trebisonda è la cosa più stupida del mondo.

 

I 3 modi per avere il pesce più grosso per cena, sono:

  1. Ingegno (a volte conta più dell’abilità)
  2. Farsi beffe del prossimo è assai rischioso
  3. Perdere la trebisonda è la cosa più stupida del mondo!

 

Perché un racconto tratto da ‘La scopa del sistema’ di David Foster Wallace?
A noi essere umani capita di perdere la trebisonda? E cosa succede quando avviene? Diciamo qualche cosa di pesante? Aggraviamo la situazione?
Possiamo scegliere di agire diversamente? Come?

Nei prossimi blog idee pratiche

Cosa ci fa alzare il lunedì mattina?

Cosa ci fa alzare il lunedì mattina per tornare al lavoro?
Come ci sentiamo il lunedì mattina, o addirittura la domenica sera, quando pensiamo di tornare al lavoro?

Per la maggior parte dei lavoratori americani il benessere aumenta il venerdì sera e diminuisce drammaticamente la domenica sera per raggiungere il punto più basso il lunedì mattina. E noi italiani siamo diversi? Perchè il lavoro, o addirittura il pensiero del lavoro, influenza negativamente il nostro benessere? Il lavoro fa male?

Qual è la nostra motivazione al lavoro? Forse abbiamo già sentito parlare di motivazione intrinseca ed estrinseca. La motivazione intrinseca si verifica quando ci divertiamo e siamo veramente interessati a fare qualcosa, come un bambino che gioca con i blocchi colorati, o dipinge o indugia con il suo videogioco preferito. La motivazione estrinseca viene spesso rappresentata come lavoro, come qualcosa che si deve. Pensiamo spesso che la gente lavori principalmente per avere i soldi. Veramente è così?

Si lavora per una serie di motivi. Tutti noi lavoriamo al fine di guadagnare per vivere: dobbiamo mangiare, pagare le bollette, i vestiti… in parte anche per l’assistenza sanitaria e l’istruzione dei nostri figli.

Sappiamo anche che ci sono molte altre ragioni per impegnarsi nel proprio lavoro, e alcune di esse sono spesso considerate più importanti del guadagnare denaro, come: sentirsi valorizzati, fare la differenza nel mondo, vivere un vero interesse personale per il lavoro che si svolge…
E le ragioni per cui si lavora hanno conseguenze sia sulla prestazione lavorativa sia sul benessere.

Lavorare per ottenere più denaro (la motivazione dei soldi) è una forma estrinseca di motivazione. Altri tipi di motivazione estrinseca possono manifestarsi nell’impegno per ottenere promozioni, benefit. Gli ultimi studi hanno evidenziato che quando le persone hanno una forte motivazione data dal danaro, hanno una prestazione lavorativa bassa e spesso utilizzano scorciatoie o espedienti per ottenere le ricompense. Questo tipo di comportamento disonesto è ancor più presente se le persone ricevono ‘denaro’ in forma di bonus.
Ci si può ritrovare anche a lavorare per aumentare la propria autostima, per evitare sentimenti di vergogna e di colpa, per ottenere l’approvazione o evitare le critiche da parte di coloro che ci circondano.
Tutti noi esseri umani lavoriamo per il nostro ego, alcuni più di altri. Questo tipo di motivazione porta le persone a impegnarsi nel lavoro facendo leva sull’ego e sui sentimenti di colpa, ma a scapito del proprio benessere: la conseguenza è una prestazione lavorativa di bassa qualità.

Le persone estrinsecamente motivate (motivazione bassa qualità) si sentono sotto pressione e vivono una competizione malsana: ovviamente il loro benessere tende a soffrire.

Quando, invece, il lavoro concorda con i propri valori personali, ciò che stiamo facendo è personalmente significativo. Questo avviene quando le persone vedono l’impatto positivo che il loro lavoro ha su un beneficiario, un cliente, l’ambiente… Il lavoratore è motivato dal significato che mette nel proprio lavoro. Questa forma di motivazione è di alta qualità ed è associata ad un maggior benessere, migliore prestazione, più impegno per il raggiungimento degli obiettivi accompagnato a una maggior soddisfazione.

Si è intrinsecamente motivati anche quando ci si diverte a fare qualcosa, quando si vive la propia passione. Non sarebbe più facile alzarsi lunedì mattina per andare a giocare invece di recarsi a lavorare? Sì, le persone che hanno una motivazione intrinseca alta al lavoro (‘non lavoro, mi diverto!’) tendono ad avere effetti del fine settimana meno pronunciati. Il lunedì si alzano con uno spirito migliore.

Qual è la differenza tra la motivazione significativa e la motivazione intrinseca? In termini di prestazioni e benessere, si ottengono gli stessi effetti. Con qualche differenza. Quando si lavora per fare la differenza (per il significato) ci si concentra sul risultato dell’attività, cioè sull’impatto che ha, non sul processo dell’attività stessa. Immaginiamo di essere pittori: se troviamo il processo di dipingere interessante e divertente (come fosse una passione) allora stiamo vivendo una motivazione intrinseca. Se, invece, è il risultato dell’attività che ci interessa, come soddisfare una richiesta del cliente, allora stiamo vivendo una motivazione ‘di significato’.

Non tutto quello che facciamo al lavoro è divertente. Ad esempio, a me piace l’insegnamento, ma non amo correggere e valutare i compiti. Cercare e trovare il significato anche nelle incombenze che non mi aggradano, mi aiuta. So che gli studenti hanno bisogno di dimostrare ciò che hanno imparato e io do a loro feedback. È utile a loro, e questo è lo scopo che dà significato all’attività (anche se il voto serve ad altri scopi).

Facciamo fatica il lunedì mattina ad andare al lavoro? Pensiamo alle ragioni per cui facciamo il nostro lavoro. Se è principalmente per il danaro o per l’ego, cerchiamo di trasformare il lavoro in attività significative e divertenti.

Motivation Moves People crea un ponte tra il mondo della ricerca e il mondo del business-azienda.

Questo articolo si basa sulla teoria della Self-Determination Theory (Deci&Ryan, 1985), teoria sulla quale si fonda parte del mio lavoro di ricercatrice.

La Prof.ssa Marylène Gagné è stata la prima studiosa con il prof. Edward Deci ad applicare questa teoria in ambito organizzativo (2005).

Una foto mia con Deci (sulla sinistra) e Ryan (sulla destra)

L’articolo originale  “Cosa ci fa alzare il lunedì mattina” è apparso su Psychology Today, https://www.psychologytoday.com/blog/getting-monday-morning/201709/what-gets-you-monday-mornings scritto dalla mia Amica, Mentore ed ex Collega prof.ssa Marylene Gagnè (http://www.web.uwa.edu.au/people/marylene.gagne)