“Ti auguro rimorsi, vogliono dire che hai sbagliato, ma che l’hai capito,
ti auguro rimpianti, ovvero le cose belle che ti sei dimenticato di fare,
ma te ne sei accorto.
Ti auguro paura, perché è da essa che nasce il coraggio,
ti auguro entusiasmo, la fonte di tutte le tue speranze.
Ti auguro poi leggerezza, essa terrà assieme rimpianti e rimorsi,
con le paure e le speranze del tuo futuro.
Accogli nel tuo cuore tutti questi sentimenti,
senza chiederti come si misura il valore di una persona,
vai avanti sorridi, sii felice e ricorda,
siamo noi stessi a determinare il nostro valore,
nessuno potrà farlo al nostro posto.”
Gentilezza
Oggi, 13 novembre, è la giornata mondiale della gentilezza. E in questo periodo essere gentile e ricevere gentilezza è un dono assai apprezzato.
Questa mattina Carolina mi ha ricordato questo, chiedendomi ‘Che ne dici di allenare la gentilezza?’ e citando Lao Tzu, ‘La gentilezza delle parole crea fiducia. La gentilezza di pensieri crea profondità. La gentilezza nel dare crea amore’.
La gentilezza crea fiducia, connessione, bellezza. Come ci ricorda Seligman, Compiere un atto di gentilezza produce un aumento istantaneo di benessere. E racconta un aneddoto: Quando era piccolo, vedendo di cattivo umore il figlio, la madre gli diceva: “Caro, hai l’aria indispettita. Perché non esci e vai ad aiutare qualcuno?” Questa massima è stata testata rigorosamente a livello empirico.
Tutti noi abbiamo l’opportunità di essere gentili, anche verso noi stessi. La ricerca mostra che quando si è gentili con sé stessi e non ci si giudica severamente, si è più resistenti di fronte alle avversità.
Doniamo e viviamo gentilezza al lavoro? In una indagine INFOJOBS sulla gentilezza al lavoro, emerge che portare il caffè a un collega, sorridere al mattino quando si arriva in ufficio, dare una mano a chiudere un documento urgente migliorano la qualità della vita in ufficio. Il 78% degli intervistati afferma che la gentilezza dovrebbe essere inserita nel curriculum tra le soft skill.
Molti di noi oggi lavorano in ‘smartworking’, ma comunque possiamo riuscire a trovare un modo per donare gentilezza. E dopo aver fatto il nostro atto di gentilezza ‘osserviamo che cosa succede al nostro umore’.
L’immagine del fiore della gentilezza è stata creata da MMP proprio per riassumere la ricerca di InfoJobs.
Buona gentilezza!
Spunti da:
Neff, K. D., & McGehee, P. (2010). Self-compassion and psychological resilience among adolescents and young adults. Self and identity, 9(3), 225-240.
Seligman, M.E.P. (2012). Fai fiorire la tua vita.
La tecnica dell’Appreciative Inquiry
Quale tecnica si può usare per accelerare un cambiamento? Per rileggere le situazioni che abbiamo vissuto e tenerne gli aspetti positivi? Sappiamo che possiamo allenare il nostro cervello, ora scopriamo, rileggendo un articolo scritto da Gianluca Braga, Strumenti e metodi per una valutazione ‘positiva’: l’Appreciative Inquiry, cosa possiamo fare in team o in azienda (e anche in associazione, in casa…)
***
Francisco Cornejo è un bancario con un’infinita passione per il calcio. Gira per campetti di periferia in cerca di nuovi talenti da segnalare alle squadre di Buenos Aires. Quel giorno, al campetto “Las Malvinas”, arriva un bambino di 9 anni, piccolo e con una folta capigliatura nera, che chiamano “el pelusa”. Appena Diego, il “pelusa”, inizia a palleggiare col suo piede sinistro, tutti gli altri ragazzi si fermano a guardare.
Francisco lo osserva con attenzione. Gli chiede di palleggiare anche con l’altro piede. Il risultato non dà la stessa “magia”. Si avvicina e dà al piccolo Diego Armando Maradona il suo primo e più importante consiglio tecnico: “d’ora in avanti, allenerai sempre, con tutto l’impegno che puoi, il tuo piede sinistro”.
Il 22 giugno 1986 a Città del Messico, nella partita dei quarti di finale dei campionati del mondo con l’Inghilterra, Maradona segna quello che per molti è da considerare il più bel gol della storia del calcio. Con 11 tocchi consecutivi del suo piede sinistro… (adattato da A. Chelo, 2008)
[…] Come allenare il piede sinistro in azienda?
Cos’è l’Appreciative Inquiry?
L’Appreciative Inquiry (AI, da qui in avanti) è un costrutto sviluppato negli anni ’80 da David Cooperrider e Suresh Srivastva, da cui derivano pratiche utilizzate originariamente in contesti organizzativi, ed è sostanzialmente volto a migliorare tali sistemi. Queste pratiche sono però state adattate all’ambito valutativo, in particolare con i lavori di Hallie Preskill, divenuta oltretutto nel 2007 Presidente dell’American Evaluation Association.
L’AI si basa su un semplice assunto di fondo: le persone – e le organizzazioni che esse compongono – che si concentrano sulla “metà vuota” del bicchiere d’acqua, i “pessimisti”, adotteranno un approccio ai problemi “classico”: si focalizzeranno su di essi per individuarne le cause e ipotizzare di conseguenza le relative azioni di miglioramento. Secondo l’AI, però, è verosimile che coloro che si concentrano sulle difficoltà, finiranno con il rimanere vincolati ad esse, poiché tenderanno ad insistere su debolezze e difficoltà proprie del sistema e delle persone che lo compongono (il piede destro). Chi invece sviluppa un approccio più ottimista e preferisce soffermarsi sulla “metà piena” del bicchiere, si concentrerà maggiormente sugli aspetti positivi e sarà per lui più semplice individuare nuove possibilità e validi sviluppi positivi, facendo leva invece sui talenti e sulle potenzialità delle persone (il piede sinistro).
A partire da questo semplice assunto, l’AI ha sviluppato delle prassi metodologiche che facilitano una lettura delle potenzialità di un sistema di persone, a partire dalle quali pensare ai futuri obiettivi.
Strettamente connessi all’idea-base, l’AI fa riferimento ad altri concetti fondanti molto coerenti con un approccio positivo:
- In qualsiasi persona o gruppo, si può sempre rintracciare qualcosa di positivo, che può essere utilizzato come esempio concreto e motore per il miglioramento. È però necessario concentrare l’attenzione su di esso, senza farsi sviare dalle criticità che spesso sono più evidenti.
- Il fatto stesso di porre (e porsi) delle domande consente di sviluppare maggiore consapevolezza ed è già una forma di cambiamento che viene attuata nel momento stesso dell’indagine.
- Le parole ci aiutano a costruire le storie che danno significato e valore ai fatti che viviamo; “la bellezza (o il suo contrario) è negli occhi di chi guarda”. In altri termini, siamo noi a costruire la nostra realtà e lo facciamo attraverso il “racconto” di ciò che accade; intervenire su questo racconto significa modificare la (nostra) realtà.
[…]
Come “si fa” l’’Appreciative Inquiry?
Il modello più diffuso, sviluppato dagli autori citati prevede quattro passaggi (il “modello 4- i”). Di seguito viene riportato con maggiore dettaglio il primo di questi passaggi, poiché più associabile alle pratiche valutative.
Inquiry. È la fase di ricerca vera e propria, che viene condotta prevalentemente attraverso interviste alle persone coinvolte nei processi oggetto di indagine. A differenza delle modalità utilizzate tradizionalmente, però, l’AI propone di indagare specificamente le potenzialità e gli aspetti positivi dell’oggetto di ricerca (la persona stessa, l’organizzazione in cui è inserita, il programma che sta realizzando…). L’obiettivo è quello di far emergere (alla consapevolezza degli attori protagonisti) il meglio di ciò che è presente in loro e nel sistema cui appartengono.
Gli “ambiti” all’interno dei quali queste “eccellenze” vengono ricercate, sono tre:
- Le esperienze: quelle situazioni, “comportamenti”, collocabili in un preciso momento e luogo, che costituiscono il maggior livello di successo e soddisfazione per le persone coinvolte. Tali eccellenze devono essere convenientemente precisate in termini di tempi e luoghi; di persone presenti e coinvolte, direttamente e non; di pensieri e fatti accaduti. Questo per rendere tali esperienze comunicabili e condivisibili e per facilitare il riconoscimento delle cause che hanno portato a tali successi.
- La cultura di appartenenza: l’insieme dei valori che guidano le azioni delle persone e che – in quanto tali – costituiscono un riferimento prezioso da rendere evidente e manifesto in quanto prodotto dell’esperienza maturata.
- Le aspirazioni individuali e/o il mandato dell’organizzazione: in altri termini, i sogni, i desideri e tutto ciò che costituisce un valore per le persone e che risulta di fondamentale importanza in termini di motivazioni e spinta al raggiungimento degli obiettivi professionali e non.
Al termine di questa prima fase, se correttamente condotta, risulta chiaro, esplicito e condiviso il potenziale delle persone coinvolte, la loro competenza, che non è soltanto astratta, ma si è già evidenziata in episodi concreti; sarà anche più facilmente intuibile la direzione verso la quale le persone intendono dirigersi e quali valori guidano questo percorso.
Le fasi successive del modello dell’AI sono meno legate al processo valutativo inteso in senso stretto. Vanno invece a guidare una sorta di problem solving prevalentemente organizzativo (anche se facilmente riconducibile a processi individuali), volto a sviluppare azioni di miglioramento, in una logica di applicazione degli esiti valutativi.
Imagine: andare oltre lo status quo, rappresentando situazioni future che siano vitali, concrete e – per qualche verso – migliori. Non differisce di molto dal terzo ambito della fase di Inquiry, salvo che questo è – all’interno delle organizzazioni – frutto di un processo negoziale e di co-costruzione degli obiettivi.
Innovate: rivedere gli elementi dell’organizzazione (valori, struttura, persone, procedure, risorse…) che devono essere modificati per poter raggiungere gli obiettivi condivisi nel passaggio precedente. In altri termini, si tratta di “ingegnerizzare” il processo di cambiamento auspicato all’interno dei meccanismi del contesto che deve mutare.
Implement: (ovviamente) si tratta infine di realizzare quanto ipotizzato, alla luce della fase di Inquiry. L’indicazione più rilevante in questo caso è quella di prevedere comunque una sorta di monitoraggio continuo dell’andamento dell’organizzazione, attraverso gli strumenti e le metodologie dell’AI. Instaurando così una sorta di circolo virtuoso che consenta di rileggere periodicamente il proprio potenziale attuato e le proprie spinte motivazionali e mettere queste al servizio di un processo di miglioramento continuo, anche se non prederminato.
Comunque consapevoli dell’orribile difficoltà nel convincere le persone a smettere di lamentarsi e a guardare ciò che di buono c’è in loro, nel mondo attorno a loro e… nei colleghi.
Bibliografia
Chelo, A. (2008). Il manager mancino. Milano: Sperling & Kupfer.
Cooperrider, D., Whitney, D. (2005). Appreciative Inquiry: A positive revolution in change. Berrett-Koehler Publishers.
Cooperrider, D. L., Whitney, D., Stavros, J. M. (2008). Appreciative Inquiry Handbook (2nd ed.). Brunswick, OH: Crown Custom Publishing, Inc.
Montano, A. (2007). Mindfulness. Guida alla meditazione di consapevolezza. Ecomind.
Preskill, H., Catsambas, T. T. (2006). Reframing evaluation through Appreciative Inquiry. Sage Publications, Inc.
Stiamo andando ad Abilene?
Durante un caldo pomeriggio in una piccola cittadina del Texas una famiglia sta giocando a carte quando il capofamiglia suggerisce di recarsi per cena ad Abilene, cittadina che dista circa 50 miglia. La figlia dice “Sembra una grande idea!”. La moglie, pur avendo qualche riserva per il lungo viaggio e il caldo, pensa che sia più importante mantenere armonia nel gruppo e dice: “Mi sembra ottimo! Spero solo che tua madre voglia venire”. La suocera dice: “Certamente vengo volentieri”.
Il viaggio è lungo, caldo e stancante. Quando arrivano al ristorante il cibo è pessimo. Tornati a casa dopo 4 ore sono “distrutti”. Uno di loro dichiara “E’ stato un gran bel viaggio, non è vero?”. La suocera risponde dicendo che in verità lei sarebbe stata volentieri a casa ma visto l’entusiasmo aveva accettato per non rovinare l’armonia. La figlia a quel punto esclama: “Nemmeno io volevo andare ma ho detto di sì perché tutti voi volevate andare!”. La moglie: “Io sono venuta per far felici voi. Solo un folle sarebbe uscito con questo caldo”. Il marito infine disse che aveva proposto il viaggio solo perché pensava che gli altri si stessero annoiando…
Leggiamo questa storia considerando la leadership orizzontale e la gestione dell’intelligenza collettiva. Cosa può evidenziare? Che l’essere umano tende ad:
- adeguarsi istintivamente a quella che crede essere la volontà del gruppo;
- seguire coloro che prendono l’iniziativa;
- riconoscere autorità a coloro che posseggono un eloquio veloce.
In altre parole, ci si lascia trascinare da persone assertive e dominanti. Gli studi (i primi, 1997, sono firmati da Paulhus e Morgan; si veda anche Cameron e Kilduff, 2009) evidenziano che percepiamo le persone loquaci come più intelligenti di quelle silenziose.
Abbiamo anche la tendenza a considerare i loquaci come leader naturali. Più un individuo parla, più gli altri membri del gruppo concentrano l’attenzione su di lui, più gli attribuiscono autorevolezza e autorità man mano che la discussione prosegue. Giova anche parlare velocemente: giudichiamo costoro più capaci e piacevoli rispetto a chi parla lentamente. La ricerca non conferma il legame tra oratoria fluente e maggior acume.
Uno studio in ambito universitario, ad esempio, ha mostrato che gli studenti che parlavano per primi e più di frequente ottenevano in genere punteggi più alti, anche se le loro risposte non si erano rivelate migliori di quelle degli studenti meno loquaci.
Come possiamo non cadere in questa trappola? Come evitare di andare ad Abilene?
Il paradosso di Abilene mostra la nostra tendenza a seguire coloro che prendono l’iniziativa, quale essa sia. Spesso non sappiamo distinguere tra buone capacità di presentazione e vera dote di leadership. In merito un noto investitore, afferma: “È fin troppo facile confondere la parlantina con il talento. Chi si presenta come buon comunicatore, cordiale, vede premiate queste caratteristiche. Perché mai? Sono tratti positivi, certo, ma diamo eccessiva importanza alla presentazione e non sufficiente rilievo al contenuto e allo spirito critico”.
Quando la prossima volta lavoriamo con il nostro team, con i nostri collaboratori… possiamo usare una frase con simpatia e chiederci ‘Stiamo salendo sull’autobus per Abilene?’ affinché anche il collaboratore, collega, leader silente (pacato, umile, modesto, riservato, timido, gentile, mite, schivo, sobrio…) possa dire la sua e far sì che venga presa in considerazione.
Tratto da:
Harvey, Jerry B. (1988), The Abilene paradox and other meditations on management, Lexington
Cain, Susan (2012). The power of introverts in a world that can’t stop talking.
Nello sport si festeggiano i successi, perché in azienda si cercano i colpevoli?
Giovedì 4 giugno Jacopo Pasetti, un ‘diversamente ingegnere’ che ‘ama le imperfezioni delle aziende e la non linearità delle persone’ con la passione della pallanuoto, scrive un articolo su ‘L’altra metà del Sole – Alley Oop’.
Si può leggere questo articolo direttamente sul Sole 24 ore o qui sotto.
Al termine possiamo chiederci: a chi dedico il mio prossimo feedback positivo? Quando?
Nello sport si festeggiano i successi, perché in azienda si cercano i colpevoli?
Pallanuoto, campionato 2013. Dopo una stagione di serie A2 sempre al comando, la mia Como Nuoto sta per tornare in A1. Abbiamo vinto il primo play-off e stiamo giocandoci la finale. Sono a fine carriera e questa sarà per me l’ultima partita. Questa finale è la chiusura di un percorso partito dalla serie A1, che sta riportando la mia squadra del cuore là dove mi aveva accolto da giovane all’inizio del mio viaggio. Sono il più vecchio del gruppo, ma resto in campo ancora tanti minuti.
Sentire, ad ogni giocata riuscita, il sostegno dei miei compagni e l’urlo del pubblico mi toglie metà della sensazione di fatica. Vivo questi piccoli gesti di celebrazione con la carica di un ragazzino alla prima partita; mi tengono talmente in gioco che sul pari, ad un minuto dalla fine, il rigore della vittoria lo conquisto io. Non sarà mio il goal, ma poco cambia, l’importante è che abbiamo vinto. Parte la festa!
Soltanto nei giorni successivi ripensando alla partita mi sono accorto di quanti piccoli sbagli i miei compagni non avessero sottolineato. Ricordo di come fosse stato importante il sentire lo slancio portato dalle azioni riuscite e festeggiate da tutti con un gesto di gioia. Vincere aiuta a vincere, segnare aiuta a segnare ed evidenziare i piccoli successi dei compagni aiuta tutti nella miglior gestione della partita.
Questo nello sport è limpido, cristallino. Il successo va celebrato, la vittoria va goduta e la bella azione o il buon gesto tecnico/atletico vanno accompagnati dalla gratifica dei compagni e dai cori di centinaia di tifosi.
Nel contesto lavorativo l’importanza del feedback positivo e della celebrazione del successo è sicuramente nota a livello teorico, ma non sempre messa in pratica e troppo spesso poco vissuta sul piano emotivo. La ricerca del colpevole e l’approccio punitivo fanno parte del modo di agire di molti manager (per fortuna non di tutti) che spesso vengono ritenuti efficaci proprio perché sanno sottolineare l’errore e intervenire duramente sullo sfortunato che ha commesso lo sbaglio.
Nella nostra cultura lavorativa, l’attenzione al fallimento (purtroppo non orientata alla comprensione dell’errore e all’apprendimento, ma alla punizione di chi ha sbagliato) è molto più frequente dell’elogio del successo e del buon lavoro. Pensiamo ad esempio che la parola critica, facoltà o conoscenza che rende capaci di valutare l’operato di altre persone e il risultato della loro attività distinguendo il ben fatto da ciò che potrebbe esser migliorato, ha nel linguaggio lavorativo una accezione negativa. Quando qualcuno di competente ci muove una critica siamo abituati ad un giudizio ostile, raramente pensiamo subito ad una valutazione positiva. Per indorare la pillola qualcuno abbina alla parola “critica” il termine “costruttiva”, questo rafforza l’idea che dando la propria opinione agli altri ben di rado la si dia per esaltarne le attività svolte.
La metafora sportiva deve portarci a visualizzare le modalità festose con cui compagni e tifosi reagiscono alle belle giocate dei campioni, deve ricordarci che spesso il migliore amico del successo che si ha in una competizione è proprio la convinzione che si acquista azione dopo azione e nulla sostiene più che il sentirsi caricati dagli altri.
In ogni ambito diventa fondamentale, per sé stessi e la propria squadra, festeggiare l’obiettivo raggiunto o i passaggi chiave di un percorso. Quando si celebra il risultato proprio nel momento della vittoria si provano emozioni positive legando il piacere del target conseguito al processo che ha permesso di ottenerlo.
Il valore di questo aspetto nel lungo periodo è più forte e permanente di qualunque premio materiale e genera voglia di completare nuovamente un progetto o raggiungere un altro obiettivo per riprovare le stesse emozioni. Le endorfine rilasciate per un piccolo o grande successo che viene evidenziato e festeggiato generano felicità e voglia di ripetersi. Negare la celebrazione non solo fa perdere la possibilità di provare sensazioni positive, ma abbassa lo stimolo a cercarle nuovamente.
Nel lavoro, come nella vita di tutti giorni, il cervello di ognuno di noi abbina la sensazione positiva alla consapevolezza che l’impegno profuso stia portando a risultati soddisfacenti.
Un buon manager conosce le proprie persone e sa leggere piccoli e grandi risultati ottenuti, sottolineandoli e celebrandoli a dovere. La convinzione con cui questo gesto viene fatto è fondamentale per l’ottenimento del risultato motivazionale. Celebrare un successo, proprio o del team, senza esserne convinti genera sicuramente l’effetto opposto a quello desiderato.
E poi diciamocelo, quanto è stato bello veder tagliare i capelli a Camoranesi dopo la vittoria del mondiale di calcio nel 2006? E nella mia pallanuoto, quanto è affascinante ribaltare in acqua la porta dove hai segnato l’ultimo goal per sedersi sopra con tutta la squadra festeggiando col pubblico? La voglia di vincere ancora e ancora parte sicuramente da lì!
Da Trentino Sviluppo: pillole settimanali per la ripresa
“Trentino Sviluppo: tre consigli per ripartire. Tre idee o tre suggestioni che non possono mancare nel bagaglio di imprenditori ed imprese nei prossimi mesi per provare a rilanciarsi dopo il lockdown. È quello che Trentino Sviluppo chiede ad un gruppo di esperti e testimoni autorevoli, raccogliendoli in un nuovo format ideato per il web dal titolo ‘Link – Connessi con il futuro. Idee per ripartire” (A.M., Corriere del Trentino, 31.05.2020)
Con immensa gratitudine ho accolto questa opportunità (condivisa con Lelio Alfonso, già direttore generale alla Presidenza del Consiglio per la comunicazione istituzionale; Angelo Lorenzetti, allenatore dell’Itas Diatec Trentino Volley; Alessandro Garofalo, innovatore; Paolo Iabichino, marketing creativo; Cristiano Nordio, esperto in strategie di marketing; Riccarda Zezza, Imprenditrice sociale).
Primo consiglio: da scacchista a giardiniere. Una leadership diretta, militare come quella di uno “scacchista” in questo momento è la migliore? In questo momento dobbiamo abbandonare la tentazione di avere tutto sotto controllo come se fossimo dei maestri di scacchi e invece comportarci, piuttosto, come se fossimo dei giardinieri, con tanti fiori e tante piante da curare e far crescere. Creare un ambiente affinché ogni fiore e ogni pianta possa crescere e fiorire secondo la propria natura.
Secondo consiglio: investire sulle persone. Considerando anche questa nuova possibilità, al leader oggi viene sempre più chiesto di cambiare atteggiamento: da micro-manager, cioè dal controllo, a macro-manager, cioè una comunicazione trasparente, di condivisione delle informazioni, di empatia, di ottimismo. Che non significa essere sdolcinati, è una questione di onestà e feedback puntuali. Significa sempre più attenzione alle persone e alla relazione, creare e promuovere strategie di supporto dei collaboratori e di sostegno. Quando l’onda emotiva si abbatte, le reazioni comportamentali sono diverse e l’investimento sulle persone è la vera chiave per ripartire bene e ripartire in fretta.
Terzo consiglio: gestire l’incertezza. Sicuramente questa emergenza ci ha obbligati a sperimentare nuovi ruoli e nuove dinamiche aziendali e ci ha obbligati a mantenerci focalizzati sulla mission e sullo scopo. In un certo senso, ci ha obbligati a rispondere a questa domanda: perché facciamo quello che facciamo? Per questo possiamo vedere questa emergenza come se fosse un modello sperimentale. La sperimentazione obbliga i leader a chiedersi se, come persone e come capi, sono stati in grado di imparare da questa esperienza, scavando a fondo nelle qualità e nelle capacità che, talvolta, non si è consci di avere. Le risposte a queste domande ci aiutano a gestire l’incertezza del momento, a lavorare anche sui nostri punti di forza che non sapevamo che ci fossero e ci aiutano anche nel futuro. È il momento dell’incertezza, è anche il momento della sperimentazione.
E se un bambino, una bambina…
Immaginiamo di parlare con un bambino, una bambina, nel mio caso con mia nipote Elena di 7 anni, e che alla domanda ‘come stai?’ lei mi risponda ‘bene, non benissimo’. E, sollecitata, mi dica che le manca la scuola, i compagni di classe, i nonni, le passeggiate…
In quel momento Elena (così come tutti i bambini) ricorda a noi adulti quanto sia importante, anche per lei, condividere il bagaglio emotivo che sta vivendo in quel momento, le emozioni che prova, senza negarle e senza essere obbligata ad una tossica positività.
Noi adulti possiamo cercare, ad esempio, nel fiore delle emozioni (di Robert Plutchick, l’emozione che ci corrisponde: dando la parola giusta all’emozione diamo significato a quello che stiamo provando e così possiamo accoglierla ed elaborarla perché più abili a distinguere la causa precisa dei nostri sentimenti. Ad esempio, da ‘sono triste’ posso dire ‘in questo momento mi sento triste’, perché noi non siamo la tristezza, noi proviamo la tristezza.
E come possiamo aiutare i bambini, le bambine con cui siamo in relazione?
Prendendo spunto dalla letteratura, da insegnanti, dai miei appunti di quando per due anni sono stata maestra (e il mio progetto dell’anno di prova è stato ‘musica ed emozioni’) e dalle abilità informatiche di Michele, qui uno strumento intitolato ‘Termometri delle emozioni’. Si considerano le 4 coppie di emozioni primarie di Plutchick e il ‘gioco’ è facile:
- Scegli l’emozione che in quel momento provi (o che provi in quella determinata situazione)
- Dai una temperatura
Condividiamo il bagaglio emotivo dei bambini e delle bambine, per vivere con più consapevolezza questo periodo ‘straordinario’ anche per loro.
Per scaricare i “Termometri delle emozioni” cliccare download!
Covid 19: vestirsi da lavoro o stare in tuta?
Abbiamo già affrontato l’argomento che ‘L’abito non fa il monaco, ma lo veste da mattina a sera’. Ora molti di noi stanno affrontando questa situazione di emergenza lavorando da casa –smartworking-; essendo a casa potremmo lavorare in tuta o in pigiama: nessuno dei colleghi ci vede! Finalmente possiamo lavorare in ‘libertà’ e possiamo anche ritardare un po’ iniziando con calma.
Essendo venerdì leggiamo anche della sfida neozelandese intitolata: Formal Friday (sopra la fotografia di mia cugina Paola che ha accolto la sfida Formal Friday). Si lavora da casa ma indossando il completo, o l’abito da lavoro e per alcuni anche un abito elegante.
Perché vestirsi in giacca e cravatta, o come se andassimo in ufficio, quando possiamo stare comodamente in tuta?
Quello che potrebbe avvenire in questo periodo di lavoro a distanza è la ‘mancanza di struttura durante il giorno’. Con poca struttura, siamo più vulnerabili alla miriade di distrazioni che possono emergere mentre lavoriamo da casa. Questa mancanza di struttura può anche significare che non c’è fine alla giornata di lavoro – in altre parole non c’è distinzione tra casa e lavoro.
Ecco allora tre motivi per cui ‘vestirsi da lavoro’ può aiutare a risolvere l’intrinseca mancanza di struttura quando si lavora da casa.
- Vestirsi con abiti da lavoro attiva la propria identità di ‘lavoratore’
Ipotizziamo di chiedere a Mario ‘Chi sei?’; lui potrebbe rispondere: sono un amico, un genitore, un musicista, un calciatore. Queste sono le sue identità. Ognuno di noi ha identità multiple e queste vengono attivate dai diversi ambienti in cui entriamo in contatto. Quando Mario cammina sul campo di calcio, l’identità del calciatore emerge; quando suo figlio cade e inizia a piangere, l’identità di essere genitore emerge per soddisfare i suoi bisogni. Allo stesso modo, quando ci vestiamo con l’abbigliamento da lavoro, entra in gioco l’identità di ‘lavoratore’. Siamo motivati ad essere un ‘lavoratore’ e ci concentriamo sul garantire la produttività per quel giorno.
Una ricerca su professionisti, passati da impiegati convenzionali a lavoratori da casa, ha evidenziato che un numero consistente di questi lavoratori ha continuato a vestire abiti da ufficio quando lavoravano da casa (Brocklehurst, 2001) perché li aiutava a rafforzare il loro senso di ‘essere al lavoro’.
- Vestirsi e togliersi gli abiti da lavoro aiuta a gestire i confini tra casa e lavoro.
Vestirsi con i vestiti da ufficio aiuta a predisporre il cervello nella giusta mentalità per il lavoro. Cambiando gli abiti in cui abbiamo dormito e indossando la ‘divisa’ da lavoro, stiamo dicendo al nostro cervello: ‘Ora sono al lavoro’. Allo stesso modo, quando cambiamo i nostri abiti da lavoro in abiti da casa a fine della giornata, ci stiamo dicendo che la giornata di lavoro è finita e che è tempo di riposare e concentrarsi sulle attività non lavorative. Queste azioni servono come fermalibri chiaramente definiti (ad es. Punto di inizio e fine) per la propria giornata e possono aiutarci a mantenere il normale numero di ore lavorative.
Un trucco per garantire il confine ‘casa-lavoro’ è quello di cambiarsi i vestiti per passare dall’identità del lavoro all’identità domestica.
- Vestirsi con abiti da lavoro può aiutare il proprio pensiero astratto a lungo termine.
Slepian e colleghi (2015) della Columbia University hanno scoperto che quando le persone indossano abiti più formali, hanno maggiori probabilità di pensare più apertamente e considerare obiettivi a lungo termine. Questa forma di pensiero, nota anche come pensiero astratto, svolge un ruolo importante nell’aiutarci a completare le attività lavorative quotidiane.
Gli studi non ci stanno suggerendo di rispolverare lo smoking e indossarlo ogni giorno; ci stanno però aiutando a considerare che potrebbe valere la pena cambiare marcia e indossare deliberatamente abiti da lavoro più formali nei giorni in cui ci troviamo ad affrontare compiti che richiedono una notevole concentrazione e ‘ginnastica mentale’. Essere in uno stato d’animo ‘aziendale’ vestendoci in modo più formale potrebbe aiutarci a reprimere qualsiasi distrazione che avvengono durante la giornata. Allo stesso modo, nei giorni in cui lavoriamo su attività più creative o facciamo brainstorming per nuove opportunità, potremmo invece scegliere una tuta comoda.
Cosa ci suggerisce la studiosa Sharon Parker, direttrice The Centre for Transformative Work Design?
Di usare intenzionalmente il modo in cui ci vestiamo come un modo per entrare e uscire da una mentalità lavorativa.
Sei pronto ad iniziare la tua personale sperimentazione? un giorno indossi abiti da ufficio, un altro giorno indossi il pigiama o un abbigliamento sportivo per scoprire quale combinazione di abbigliamento offre la versione più produttiva di te.
Spunti tratti da:
Brocklehurst, M. (2001). Power, identity and new technology homework: Implications for new forms’ of organizing. Organization studies, 22(3), 445-466.
Slepian, M. L., Ferber, S. N., Gold, J. M., & Rutchick, A. M. (2015). The cognitive consequences of formal clothing. Social Psychological and Personality Science, 6(6), 661-668.
Weick, K. E. (1996). Drop your tools: An allegory for organizational studies. Administrative science quarterly, 301-313.
Covid 19: sii gentile con te stesso
Molte persone oggi sono sovraccaricate nel loro lavoro (possono vivere quello che in gergo viene chiamato ‘possibile momento di stress con viva attivazione fisiologica e comportamentale’): alcune affrontano problemi derivanti dallo ‘smartworking’, altre cercano freneticamente di pensare a un Piano A, B e C se le loro attività lavorative chiudessero, alcuni cercano di destreggiarsi tra lavoro da casa con bambini piccoli che corrono, e altri ancora trovano impossibile concentrarsi vista la pandemia che stiamo vivendo. Inoltre sentiamo la mancanza di riti comunitari e riti individuali.
Cosa facciamo in questo momento di grande stress? Ognuno reagisce a modo suo e si cerca di sopravvivere. Alcuni non hanno nemmeno il tempo di pensare a ciò che sta accadendo.
L’essere umano, quindi, potrebbe attivare il meccanismo di coping centrato sull’evitamento.
Cosa significa coping? È la messa in atto di strategie nel tentativo di far fronte all’evento, può essere un pensiero o una azione. Sono strategie del qui & ora (Lazarus & Folkman, 1984). Il coping centrato sull’evitamento (avoidance coping) è il tentativo dell’individuo di ignorare la minaccia dell’evento stressante o attraverso la ricerca del supporto sociale o impegnandosi in attività che distolgono la sua attenzione dal problema. La ricerca mostra che evitare di pensare a una situazione stressante può essere utile a breve termine ma, a lungo termine, può contribuire alla depressione e al burnout.
Piuttosto che attivare una strategia di coping centrato sull’evitamento, un modo più adattivo per affrontare lo stress è praticare l’autocompassione (self-compassion).
Secondo Neff e Vonk (2009), autocompassione significa tre cose:
- Essere consapevoli dei propri sentimenti (Consapevolezza). Riconoscere le proprie emozioni. Rallentare il necessario per sentire i sentimenti e non scappare.
Dare parola alle proprie emozioni.
Noi siamo compassionevoli verso un nostro amico, verso colui che soffre. E verso di noi?
Sono ansiosa? Confusa? Preoccupata? Arrabbiata? Frustrata?
Come si manifestano questi pensieri e sentimenti?
Va bene dire ‘È dura. È difficile in questo momento’. - Sii gentile con te stesso. Immagina che un tuo amico sia venuto da te e abbia condiviso con te di sentirsi sopraffatto, di non riuscire a svolgere il proprio lavoro in modo adeguato e di non poter rispondere nemmeno alle richieste della famiglia. È altamente improbabile che tu dica al tuo amico di smettere di essere debole e di lavorare di più. Eppure parliamo spesso a noi stessi in questo modo quando non stiamo ‘affrontando bene la situazione’.
Trattati allo stesso modo in cui tratteresti un amico. Chiediti “come posso prendermi cura di me stesso meglio?”
Se non riesci a portare a termine tutte le tue attività o pensi che la tua performance lavorativa sia basso o se la tua casa non è lucida e in ordine, concediti una pausa. Non giudicarti così duramente. - Accetta la tua umanità. Il fatto che a volte potresti sentirti sopraffatto, nervoso o incapace di farcela, non ti rende debole: ti rende umano. Non esiste una persona perfetta: tutti abbiamo dei fallimenti. Quindi non sei solo o unico se sbagli o non stai affrontando bene o stai fallendo in qualche modo. È la nostra realtà condivisa come umani – stiamo tutti lottando a modo nostro. Condividere i tuoi sentimenti con gli altri aiuta.
L’auto-compassione non è debolezza. In effetti, la ricerca mostra che quando sei gentile con te stesso e non ti giudichi severamente, sei più resistente di fronte alle avversità (Neff, K. D., e McGehee, P., 2010). Né è egoistico esercitare autocompassione. In effetti, non puoi supportare pienamente le altre persone o essere efficace nel tuo ruolo di genitore, padre, manager, madre, sorella, amica, se non ti senti bene (Barnard, L. K., e Curry, J. F., 2011).
La persona capace di provare auto-compassione, quando si confronta con i fallimenti, offre a se stessa un caldo abbraccio. Non si giudica, non si arrabbia, non si fa del male, non si sminuisce. Si comprende con gentilezza. Resta calma, non va in ansia, non soccombe allo stress. Per questo reagisce meglio alle avversità.
Kristin Neff, la studiosa di autocompassione, ci propone un esercizio di autocompassione dal titolo ‘pausa di autocompassione’.
- Identifica l’emozione che provi (è frustrazione, è dolore, è paura…)
- Ricordati l’umanità condivisa (es. la sofferenza fa parte della vita. A tutti capita di sentirsi così, ogni tanto)
- Metti le mani sul cuore, o in una posizione rassicurante. E diciamoci: voglio avere compassione di me, voglio trovare la forza e la pazienza…
Spunti tratti da:
Covid 19: è arrivato il momento di essere Romolo?
Qualche giorno fa ho letto un articolo sul Sole24 ore di Luca Villani scritto il 22 maggio 2019, dal titolo: Romolo e Remo, due differenti stili di leadership che oggi ha una sfumatura interessante.
L’articolo, sotto riportato, ci fa riflettere su due modelli di leadership: quello dinamico, visionario, coraggioso e anche egocentrico e tirannico (Remo, leader ‘naturale’) e quello inclusivo, collaborativo e più lento (Romolo). Noi conosciamo sia Remo sia Romolo; ora è arrivato il momento di trasformarci e diventare Romolo, di creare quel noi e imparare a rinunciare, a perdere, a organizzare, a evolvere in un ‘noi’ più complesso e inclusivo.
Buona lettura e buona visione del film ‘Il primo re’.
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«Il primo re» è un film italiano molto originale: un mini-kolossal che ha fatto e farà discutere per numerosi motivi. In primo luogo per l’argomento, il mito di Romolo e Remo, un tema impresso nella nostra memoria scolastica e al tempo stesso poco conosciuto. Poi per la realizzazione – insolita per un film italiano – estremamente cruda e realistica, ispirata a pellicole come Apocalypto e The Revenant. Infine per la lingua: un «proto-latino» assai credibile, messo a punto da un gruppo di ricercatori dell’Università la Sapienza di Roma.
Il leader naturale
Ma c’è un’altra chiave di lettura che merita di essere considerata: quella legata ai modelli di leadership. Per gran parte del film il protagonista è Remo: non solo perché Romolo è ferito quasi a morte, ma perché Remo è effettivamente un leader naturale. Forte fisicamente, determinato e astuto, libera se stesso, il fratello e un piccolo gruppo di compagni di sventura catturati dai nemici; assume il comando del gruppo, in virtù della sua superiorità nel combattimento; riesce a cacciare un cervo, e quindi a nutrire i suoi; in tutto questo, trasporta il fratello moribondo. Nel frattempo, però, il suo atteggiamento si fa sempre più dispotico e violento, e chi prova a sfidarlo paga con la vita. «Vi ho salvati, vi ho guidati, vi ho nutriti: sono il vostro re», dice a un certo punto, e non gli si può dare torto. Il suo progetto, insomma, funziona: a tenere unita la squadra è un perfetto mix di risultati, carisma, terrore.
Entra in scena il “noi”
A un certo punto del loro viaggio, i protagonisti conquistano un villaggio sterminandone gli uomini e assumendone senza tanti complimenti il controllo davanti a una platea di vecchi, donne e fanciulli. Fin qui, siamo all’interno delle logiche – pur spietate – del mercato o, fuor di metafora, della sopravvivenza. Ma quando Remo uccide – in preda a uno scatto d’ira – l’anziano e inerme capo villaggio, travalica un limite etico e innesca la svolta narrativa. Mentre Remo, infatti, riparte con i suoi armati, Romolo resta al villaggio, parzialmente ristabilito, trovandosi a dover gestire una frattura apparentemente senza soluzione. «Seppelliamolo insieme», dice allora. Due parole con le quali emerge come nuovo leader, di una specie diversa: pio, avrebbero detto gli antichi, inclusivo diremmo noi oggi.
E non è, si badi bene, la sua una posizione nobile ma improduttiva. Al contrario: quando Remo viene assalito nuovamente dai nemici, meglio armati e organizzati, a salvarlo è proprio Romolo, spalleggiato da un esercito di ragazzini del villaggio, un esercito di popolo, arruolato non più con la forza ma in ragione di un’idea di bene comune non solo teorizzata ma praticata “insieme”, con la sepoltura dell’anziano. Walk the talk, fai quello che dici, ci insegnano oggi gli esperti di management. Il mito ci dice come andrà a finire: vinta la battaglia, il conflitto di visione fra i due fratelli esplode e ad avere la meglio è il “fragile” Romolo.
Due modelli
Insomma, siamo in presenza di due modelli di leadership ben noti: quello dinamico, visionario, coraggioso ma spesso egocentrico e tirannico; e quello inclusivo e collaborativo, magari più lento, come lenta è la guarigione di Romolo, che di fatto per gran parte del film sembra prepararsi al suo scatto finale. Due modelli che chi lavora all’interno di una qualsiasi organizzazione conosce perfettamente, avendoli visti all’opera numerose volte in tutte le varianti possibili, a volte addirittura in coabitazione (o in furiosa contrapposizione). Quale è migliore? Sarebbe facile concludere che il manager-Romolo è da preferire, non solo sul piano etico, ma perché ottiene risultati più profondi e duraturi (come fondare Roma, un brand oggi un po’ appannato ma capace di sopravvivere per quasi tremila anni). Eppure resta incontrovertibile il ruolo di Remo, senza il quale i due fratelli-soci e i loro “dipendenti” non sarebbero mai sopravvissuti alle sfide iniziali.
Il ruolo del tempo
E allora? E allora probabilmente ogni organizzazione ha bisogno di entrambi: di Remo e di Romolo. Di audacia e di strappi violenti, frutto dell’intuizione, quasi solipsistici; e di ricomposizioni più lente, profonde, plurali. Meglio ancora: la dicotomia non è solo sincronica (A oppure B), ma si fa ancora più affascinante se la leggiamo in modo diacronico (A e poi B). Perché è il tempo, come nell’ottimo film di Matteo Rovere, uno dei protagonisti di ogni storia. E allora, forse, la lezione è proprio che ogni leader deve nascere Remo, visionario, risoluto e competitivo, startupper, se vuole emergere; ma guai a lui se non impara a rinunciare, a perdere, a organizzare, a evolvere in in un “noi” più complesso e inclusivo. Pena il rischio di rimanere solo (e magari morto, metaforicamente), smarrendo l’occasione di attraversare il Tevere per fondare qualcosa di più grande.