Covid 19: sii gentile con te stesso

Molte persone oggi sono sovraccaricate nel loro lavoro (possono vivere quello che in gergo viene chiamato ‘possibile momento di stress con viva attivazione fisiologica e comportamentale’): alcune affrontano problemi derivanti dallo ‘smartworking’, altre cercano freneticamente di pensare a un Piano A, B e C se le loro attività lavorative chiudessero, alcuni cercano di destreggiarsi tra lavoro da casa con bambini piccoli che corrono, e altri ancora trovano impossibile concentrarsi vista la pandemia che stiamo vivendo. Inoltre sentiamo la mancanza di riti comunitari e riti individuali.

Cosa facciamo in questo momento di grande stress? Ognuno reagisce a modo suo e si cerca di sopravvivere. Alcuni non hanno nemmeno il tempo di pensare a ciò che sta accadendo.

L’essere umano, quindi, potrebbe attivare il meccanismo di coping centrato sull’evitamento.

Cosa significa coping? È la messa in atto di strategie nel tentativo di far fronte all’evento, può essere un pensiero o una azione. Sono strategie del qui & ora (Lazarus & Folkman, 1984). Il coping centrato sull’evitamento (avoidance coping) è il tentativo dell’individuo di ignorare la minaccia dell’evento stressante o attraverso la ricerca del supporto sociale o impegnandosi in attività che distolgono la sua attenzione dal problema. La ricerca mostra che evitare di pensare a una situazione stressante può essere utile a breve termine ma, a lungo termine, può contribuire alla depressione e al burnout.

Piuttosto che attivare una strategia di coping centrato sull’evitamento, un modo più adattivo per affrontare lo stress è praticare l’autocompassione (self-compassion).

Secondo Neff e Vonk (2009), autocompassione significa tre cose:

  1. Essere consapevoli dei propri sentimenti (Consapevolezza). Riconoscere le proprie emozioni. Rallentare il necessario per sentire i sentimenti e non scappare.
    Dare parola alle proprie emozioni.
    Noi siamo compassionevoli verso un nostro amico, verso colui che soffre. E verso di noi?
    Sono ansiosa? Confusa? Preoccupata? Arrabbiata? Frustrata?
    Come si manifestano questi pensieri e sentimenti?
    Va bene dire ‘È dura. È difficile in questo momento’.
  2. Sii gentile con te stesso. Immagina che un tuo amico sia venuto da te e abbia condiviso con te di sentirsi sopraffatto, di non riuscire a svolgere il proprio lavoro in modo adeguato e di non poter rispondere nemmeno alle richieste della famiglia. È altamente improbabile che tu dica al tuo amico di smettere di essere debole e di lavorare di più. Eppure parliamo spesso a noi stessi in questo modo quando non stiamo ‘affrontando bene la situazione’.
    Trattati allo stesso modo in cui tratteresti un amico. Chiediti “come posso prendermi cura di me stesso meglio?
    Se non riesci a portare a termine tutte le tue attività o pensi che la tua performance lavorativa sia basso o se la tua casa non è lucida e in ordine, concediti una pausa. Non giudicarti così duramente.
  3. Accetta la tua umanità. Il fatto che a volte potresti sentirti sopraffatto, nervoso o incapace di farcela, non ti rende debole: ti rende umano. Non esiste una persona perfetta: tutti abbiamo dei fallimenti. Quindi non sei solo o unico se sbagli o non stai affrontando bene o stai fallendo in qualche modo. È la nostra realtà condivisa come umani – stiamo tutti lottando a modo nostro. Condividere i tuoi sentimenti con gli altri aiuta.

L’auto-compassione non è debolezza. In effetti, la ricerca mostra che quando sei gentile con te stesso e non ti giudichi severamente, sei più resistente di fronte alle avversità (Neff, K. D., e McGehee, P., 2010). Né è egoistico esercitare autocompassione. In effetti, non puoi supportare pienamente le altre persone o essere efficace nel tuo ruolo di genitore, padre, manager, madre, sorella, amica, se non ti senti bene (Barnard, L. K., e Curry, J. F., 2011).

La persona capace di provare auto-compassione, quando si confronta con i fallimenti, offre a se stessa un caldo abbraccio. Non si giudica, non si arrabbia, non si fa del male, non si sminuisce. Si comprende con gentilezza. Resta calma, non va in ansia, non soccombe allo stress. Per questo reagisce meglio alle avversità.

Kristin Neff, la studiosa di autocompassione, ci propone un esercizio di autocompassione dal titolo ‘pausa di autocompassione’.

  1. Identifica l’emozione che provi (è frustrazione, è dolore, è paura…)
  2. Ricordati l’umanità condivisa (es. la sofferenza fa parte della vita. A tutti capita di sentirsi così, ogni tanto)
  3. Metti le mani sul cuore, o in una posizione rassicurante. E diciamoci: voglio avere compassione di me, voglio trovare la forza e la pazienza…

Spunti tratti da:

https://www.linkedin.com/pulse/kind-yourself-self-compassion-difficult-times-sharon-k-parker/?trackingId=AIJQdskzRXGxWv2%2F2cwh2A%3D%3D

Possiamo allenare il nostro cervello ad essere felice?

Felicità: possiamo allenarci ad essere felici? Possiamo allenare il nostro cervello a renderci più felici?

Una convinzione errata è che la nostra genetica, il nostro ambiente o una combinazione dei due determini quanto siamo felici. Certo, entrambi i fattori hanno un impatto. Ma il senso generale di benessere è sorprendentemente malleabile. Ad esempio, le abitudini che noi coltiviamo, il modo in cui interagiamo con i colleghi, come pensiamo allo stress… possono essere gestiti per aumentare la nostra felicità e la nostra possibilità di successo.

Come possiamo sviluppare nuove abitudini positive, utili, efficaci per il nostro benessere?

Allenare il cervello ad essere positivo non è così diverso dall’allenamento dei nostri muscoli in palestra. Recenti ricerche sulla neuroplasticità (l’abilità del cervello di cambiare anche in età adulta) rivelano che quando sviluppiamo nuove abitudini, ‘riscriviamo, ristrutturiamo’ il cervello.

Gli studi di Shawn Achor suggeriscono che impegnarsi in un breve esercizio positivo ogni giorno per un minimo di tre settimane può avere un impatto duraturo.

Quali esercizi possiamo fare?

  • Al termine della giornata, scrivere tre cose di cui siamo stati grati.
  • Scrivere un messaggio positivo a qualcuno della propria rete sociale.
  • Meditare (anche alla scrivania) per due minuti.
  • Fare esercizio fisico per 10 minuti (meglio sarebbe una camminata nel bosco per 15-20 minuti).
  • Due minuti per descrivere in un diario l’esperienza più significativa delle ultime 24 ore.

Questi ‘esercizi’ sono stati provati da alcuni manager che stavano vivendo un ‘brutto periodo lavorativo’,

ogni giorno per tre settimane. Diversi giorni dopo la conclusione dell’allenamento, lo studioso Shawn Achor ha valutato sia i partecipanti a questo allenamento speciale (gruppo sperimentale) sia manager che non erano stati coinvolti in questo progetto (gruppo di controllo) per determinare il loro senso generale di benessere, quanto erano impegnati, quanto tristi…

Su ogni aspetto considerato, i punteggi del gruppo sperimentale erano significativamente più alti di quelli del gruppo di controllo. Quando gli studiosi hanno nuovamente verificato l’efficacia su entrambi i gruppi, quattro mesi dopo, il gruppo sperimentale mostrava ancora punteggi significativamente più alti nell’ottimismo e nella soddisfazione della vita. Il punteggio medio dei partecipanti sulla scala di soddisfazione della vita – una metrica ampiamente accettata per essere uno dei più validi predittori di produttività e felicità al lavoro – si era spostato da 22,96 su una scala a 35 punti prima della formazione a 27,23 quattro mesi dopo: un significativo incremento.

 Possiamo allenare il nostro cervello ad essere felice? Con un rapido esercizio al giorno per 21 giorni!

Tratto da Positive Intelligence di Shawn Achor, 2012

Immagine: Yue Minjun, Laughing Painter, 2003

2019: il calendario per il nostro benessere

L’evoluzione è molto più interessata a tenerci in vita che a renderci felici. Complessivamente le emozioni negative superano quelle positive e hanno un peso maggiore nella nostra valutazione di persone e situazioni. Possiamo ‘imparare’ a essere terrorizzati da qualcosa per il resto della nostra vita anche solo attraverso un singolo momento, episodio di forte emozione. Possiamo ‘ringraziare’ l’amigdala che si dimostra essenziale nel riconoscimento della paura. Queste paure apprese sono tenaci e tendono a ritornare quando siamo sotto stress in quanto l’amigdala, pur essendo piccola come una mandorla, è come se fosse un elefante: dimentica con fatica.

Qual è la buona notizia? Che possiamo apprendere e riuscire a cogliere l’opportunità nel problema: ‘ci sono due commercianti che partono da Manchester per ampliare il loro giro d’affari in Africa. Dopo qualche giorno, il primo commerciante scrive: siamo spacciati, nessuno porta le scarpe. Il secondo commerciante scrive: grandissima opportunità, nessuno porta le scarpe.

Possiamo decidere di prestare più attenzione ad alcuni aspetti positivi della nostra vita? Come? MMP, ispirandosi a http://www.actionforhappiness.org/calendars, ha creato un calendario annuale: ogni mese due stimoli di riflessione.  

Che il nuovo anno porti un po’ più di benessere a tutti noi!


Luis Cozolino (2008). Il cervello sociale. Neuroscienze delle relazioni umane.

Ci sentiamo stressati dalla tecnologia?

Tecnostress: è la percezione di essere ‘invasi’ dalla tecnologia informatica e dal sovraccarico di informazioni. Noi soffriamo di tecnostress?

Abbiamo parlato di dipendenza da smartphone, e oggi la nostra attenzione è sull’utilizzo delle tecnologie informatiche per lo svolgimento di attività lavorative. È risaputo che incide sul nostro apparato muscolo-scheletrico e osteo-articolari (polsi, dita, collo, schiena…); ci sono anche rischi di natura psico-sociali (aumento del carico cognitivo e dilatazione dei tempi lavorativi all’interno della sfera privata-personale). Quest’ultimi ancor più evidenti se si interagisce con colleghi di altri paesi nel mondo.
I sintomi di tecnostress sono: insonnia, calo della concentrazione, mal di testa, ipertensione, stanchezza cronica…

Come gestire questo stress? C’è un modo?
La PAUSA DIGITALE.
Non è impossibile… in alcune aziende in America si programmano alcuni periodi dell’anno, o un giorno alla settimana, oppure brevi periodi durante la giornata lavorativa nei quali escludere l’uso di tecnologie informatiche.

Chi beneficerebbe di questa PAUSA DIGITALE?  Oltre alla salute dei lavoratori, la qualità del lavoro e l’organizzazione aziendale.
Sappiamo che le interruzioni, il passare da una attività all’altra riducono l’efficienza e abbassano il livello di energia. E per il ripristino ci vogliono 15/20 minuti. Ad esempio, le interruzioni frequenti per rispondere alle email in arrivo comportano una rottura nella concentrazione del lavoro in corso e compromettono la qualità stessa del lavoro. Affinché questo non diventi il nostro modo di lavorare, stiamo creando delle ‘finestre’ per rispondere alle email?

Vediamo come alcune aziende stanno gestendo il potenziale tecnostress. Alcuni esempi:

  • Volkswagen in Germania, dal 2011, ha deciso, per i dipendenti con un cellulare aziendale, di limitare la gestione delle e-mail fuori dagli orari di ufficio (i server si spengono mezz’ora dopo la fine dei turni e riaccesi trenta minuti prima dell’inizio)
  • L’azienda chimico energetica Bayer e E.On. ha stabilito ufficialmente che nel tempo libero nessuno debba ricevere email di lavoro
  • In Henkel è stato dichiarato il sabato come giorno ‘mail free’
  • In Bmw gli impiegati stabiliscono con i capi le ore di reperibilità extra ufficio e il tempo dedicato a rispondere ad email è considerato straordinario, da recuperare nel corso della settimana lavorativa.

È possibile che ora noi stiamo pensando: da noi non è possibile.
Veramente non è possibile o è un modo per giustificarci-giustificare l’azienda e sentirci importanti?
Possiamo essere noi a iniziare creandoci delle ‘finestre’ di pausa digitale!
A volte l’impossibile è quello che non abbiamo ancora fatto!

 

Spunti da:

Gianni Alioti (2016). Tecnologie digitali, tecnostress e pausa digitale.

 

Categorie: self management – stress

Sappiamo resistere al ‘marshmallow’?

Il 12 settembre è venuto a mancare a 88 anni Walter Mischel, uno dei più citati psicologi del Novecento.

Walter Mischel negli anni Sessanta coinvolse più di 600 bambini (4-6 anni) in un esperimento. A questi bambini venne consegnato un marshmallow: potevano mangiarlo subito o aspettare 20 minuti e in qual caso avrebbero avuto 2 marshmallow. Alcuni bambini lo mangiarono subito, alcuni lo accarezzarono, altri si coprirono gli occhi o giocherellarono nervosi sulla sedia frustrati. 1/3 dei 600 bambini riuscirono a gestire l’attesa per avere il secondo marshmallow. I bambini capaci di ritardare la gratificazione divennero uomini e donne più fiduciosi, autosufficienti, affidabili e perseveranti.

Walter Mischel divenne noto al grande pubblico e l’esperimento del marshmallow continuò ad essere una delle prove maggiormente riprodotte e discusse della psicologia contemporanea (qui si può vedere un video molto divertente: https://www.youtube.com/watch?v=8T9LMaZyd2M ).

Per noi adulti, quale potrebbe essere il nostro marshmallow, la nostra la tentazione?
Telefono, Facebook, multitasking, lavorare più ore, ridurre le ore di sonno…?

Consideriamo le email, strumento utile e fondamentale per il nostro lavoro (e non solo). Gli studi evidenziano che la nostra compulsione a rispondere alle e-mail è solo il nostro bisogno di rimanere in contatto per sentirci produttivi a breve termine con il minimo sforzo. Rispondere alla posta elettronica è anche un modo per evitare la fatica di smuovere l’energia per una messa a fuoco costante necessaria per un compito più impegnativo.

Quali modi, strategie usiamo per ri-focalizzarci? Come possiamo utilizzare al meglio quel muscolo che chiamiamo ‘autocontrollo’?

Formulando piani di azione: ‘se… allora…’ (se succedesse questo fatto, allora io farò, mi comporterò). E più il se (il fatto) è preciso, specifico, più possibilità ho di esercitare l’autocontrollo ed avere successo.
Ipotizziamo che stiamo scrivendo una relazione e continuiamo a ripeterci: dobbiamo finire la relazione. Questo pensiero non ci aiuterà nel raggiungimento dell’obiettivo. Come fare, come aiutare il nostro autocontrollo? Se entro mercoledì non avrò finito la relazione, allora sospenderò qualsiasi altra cosa fino a quando non avrò finito.

Il piano di azione accresce la possibilità di raggiungere l’obiettivo… è una strategia di anticipo, in quanto si ‘programma’ il nostro cervello ad un eventuale imprevisto, ad una eventuale situazione: il cervello sa già da prima come reagire ad una specifica situazione.

Heidi Grant afferma che la tecnica funziona non solo con gli individui, ma anche con i gruppi di lavoro.

Quante volte ci capita di avere obiettivi ‘sommari’? Quante volte ci capita di allungare i tempi per ‘colpa di tutti gli imprevisti’?
Cosa è un imprevisto, se non un previsto che non si sa dove e quando, ma arriverà?

Il piano d’azione ‘se-allora’ è una strategia di anticipo perché può aiutare le persone a focalizzarsi, a collaborare, a condividere informazioni e anche ad essere autonomi.

Dopotutto, somiglia a un se-allora istantaneo anche la brillante strategia usata istintivamente dai bimbi per resistere ai marshmallow: “Se mi viene una voglia matta di mangiarmi questo buon dolcetto, allora mi invento una canzoncina. O mi metto un dito nel naso”’. (Annamaria Testa)

Prossimamente una strategia pratica per applicare il piano ‘se-allora’.

 

Spunti tratti da:

Annamaria Testa (2016). I marshmallow e il magico potere della formula se-allora https://www.internazionale.it/opinione/annamaria-testa/2016/10/24/marshmallow-potere-autocontrollo-bambini-adulti

Heidi Grant (2014). Get your team to do what it says it’s going to do. Harvard Business Review  https://hbr.org/2014/05/get-your-team-to-do-what-it-says-its-going-to-do

Quale storia stiamo raccontando a noi stessi? Velcro o Teflon?

Ci stiamo raccontando una storia che dà piacere ed è benefica o una storia che dà sofferenza ed è malefica? Se il mondo reale non ci piace, ce ne inventiamo uno nel quale stare ‘bene’, che ci dà sollievo; oppure pur non essendoci più pericoli fisici dell’ambiente come per l’uomo preistorico, creiamo nemici ben più pericolosi dentro il nostro cervello?

Le aggressioni reali, quelle fisiche, sono ormai relativamente rare, eppure la nostra Amygdala è sempre sollecitataperché il nostro sistema d’allarme ‘non distingue fra aggressioni fisiche reali e aggressioni simboliche pensate’. Quest’ultime provengono dal cervello, non dal mondo esterno. È il nostro cervello, sulla base della sua memoria, con tutti i ragionamenti che può fare, che decide se siamo in pericolo oppure no. Come scrive Giulio Cesare Giacobbel’elenco degli animali pericolosi per l’uomo in epoca preistorica fa ridere al confronto dei pericoli che il nostro pensiero è in grado di creare oggi’. I pericoli inventati dal nostro pensiero sono praticamente infiniti. Dale Carnagie, autore de Come trattare gli altri e farseli amici, scriveva che il 99% delle cose per cui siamo in ansia non accadono mai. Quasi tutte le ansie o l’infelicità derivano dall’immaginazione e non da fatti e dati reali.

C’è anche il detto: Quelli che non sanno vincere le preoccupazioni muoiono giovani.

Cosa significa? Nel 2012 una ricerca (Affective reactivity to daily stressors and long-term risk of reporting a chronic physical health condition) ha verificato che non sono gli stressor a danneggiare la salute. Sono le reazioni delle persone agli stressor che determinano quanto le persone soffriranno di problemi di salute. Si distingue quindi tra persone che quando incontrano un fattore stressante vi si appicciano come fossero fatte di VELCRO; all’opposto le persone TEFLON permettono allo stress di scivolargli via. E l’impatto non è solo quello immediato: è più probabile avere uno stato di salute peggiore da qui a 10 anni se i problemi e lo stress conseguenti restano attaccati addosso come il velcro (anziché farseli scivolare via come il teflon). Cosa possiamo fare? Cosa dice la scienza?
Cambiare il modo di vedere lo stress può farci stare meglio.
Ad esempio, noi esseri umani possiamo imparare tecniche di rilassamento e di meditazione adeguate alla vita occidentale, possiamo imparare ad essere più teflon e meno velcro. Questo è uno dei motivi per cui la mindfulness sta avendo sempre più seguito, sia per i risultati pratici che per le conferme cliniche.

Noi che atteggiamento abbiamo? La storia che ci stiamo raccontando è più velcro o più teflon?

 

Tratto da:

Giacobbe, G. C. (2013). Come smettere di farsi le seghe mentali e godersi la vita. Milano: Ponte alle Grazie

Piazza, J. R., Charles, S. T., Sliwinski, M. J., Mogle, J., & Almeida, D. M. (2012). Affective reactivity to daily stressors and long-term risk of reporting a chronic physical health condition. Annals of Behavioral Medicine, 45(1), 110-120.

Come l’empatia può cambiare la nostra vita?

Oggi conosceremo parte del pensiero scientifico che sostiene l’idea di empatia. Un approfondimento come opportunità per capire meglio noi stessi e chi ci sta a cuore.

Alcuni dati:

  • oggi il 75% degli studenti universitari valuta se stessi come meno empatici rispetto agli studenti di 30 anni fa…
  • il 99% delle persone provano una qualche sorta di empatia (chi fa parte di quell’1%? … psicopatici)

Che cos’è l’empatia? L’empatia (dal greco: en dentro, pathos sentimento) è quando si comprende la prospettiva di qualcun altro e si vive, sperimenta quei sentimenti.

Come si differenzia dalla simpatia? Simpatia (dal greco: syn insieme, pathos sentimento. Nel significato originario molto simile ad empatia) è quando si ha compassione ma non necessariamente si condividono la prospettiva e/o le emozioni.

L’empatia è naturale. Gli esseri umani sono intrinsecamente empatici; infatti noi siamo strettamente connessi con le persone nella nostra vita (ad esempio i nostri cari).

La ricerca dimostra che le persone possono imparare ad avere empatia per un estraneo/straniero entrando in contatto con lui/lei anche solo poche volte (e anche solo per telefono). Inoltre le persone che usano del proprio tempo per l’auto-riflessione tendono ad avere più empatia.

COME AIUTA L’EMPATIA?

  • Abbassa lo stress: le persone che praticano qualche tipo di meditazione che incoraggia l’empatia, come l’essere amorevoli, riducono le risposte immunitarie indotte dallo stress e godono di una salute generale migliore. Un altro studio evidenzia che i medici che mostrano più compassione ai loro pazienti, hanno un livello di stress più basso in situazioni emotivamente intense.
  • Aiuta le nostre relazioni: le persone che riescono a cogliere il punto di vista del partner hanno una relazione più serena e sperimentano meno negatività con il loro partner.
  • Aiuta a sentirsi più connessi: l’empatia aiuta a sentirci legati agli altri, riducendo e dissolvendo le barriere tra di noi, favorendo lo spostamento da una prospettiva dell’interesse personale verso il dare altruistico.
  • Riduce il dolore: le persone che danno conforto e comprensione a un’altra persona che vive la stessa condizione, sperimentano (entrambe le parti) una diminuzione del dolore.
  • Rende i leader migliori: i capi che sono empatici tendono a ottenere prestazioni migliori dai dipendenti perché i dipendenti si fidano di loro in quanto i capi hanno a cuore i loro interessi.

COME ESSERE PIÙ EMPATICI?

L’empatia è una abilità che può essere sviluppata e praticata! Alcune strategie possono essere:

  • Essere curiosi e parlare con persone non appartenenti alla solita cerchia di amici e conoscenti.
  • Cercare gli aspetti in comune con gli altri, non le differenze.
  • Ascoltare veramente gli altri, e non aver paura di rendersi vulnerabili.
  • Leggere narrativa. Le persone che leggono narrativa hanno ottenuto un punteggio più alto in un test che ha chiesto loro di dedurre i pensieri e le emozioni degli altri (rispetto a coloro che leggono romanzi di uno specifico ed esclusivo genere letterario, o saggistica o nulla).
  • Provare un’altra vita. Come: se si è atei, provare ad andare in chiesa; leggere una pubblicazione con una prospettiva politica diversa rispetto alla propria.
  • Vivere nei panni di un’altra persona. Durante una conversazione immaginare quello che la persona sta pensando, o provando.

EMPATIA AL LAVORO

Come può il capo mostrare empatia ai propri collaboratori?

  • Ascoltare senza interrompere
  • Immaginare i ‘sentimenti’ dei collaboratori (come il collaboratore si sente)
  • Durante la conversazione, riformulare riflettendo con loro con una frase tipo: ‘Quello che dici è…’
  • Validare i loro sentimenti: ‘Comprendo i tuoi sentimenti…’
  • Mostrare sostegno e chiudere la conversazione

Nessuna analisi, per favore. L’empatia reprime il pensiero analitico e viceversa. È difficile per il cervello usare entrambe le abilità contemporaneamente. 

 

Tratto da: Do you have enough empathy? Why empathy matters. https://my.happify.com/hd/empathy-can-change-your-life-infographic/

 

Può il nostro atteggiamento mentale (forma mentis) alterare la nostra esperienza attuale e influire sul nostro futuro?

Luca Mazzucchelli, direttore di Psicologia contemporanea, presentando il libro di Kelly McGonigal, Il lato positivo dello stress,  ci ricorda che il nostro mondo è composto dal 20% dai fatti che ci accadono, e l’80% da come ci poniamo di fronte ad essi.

Cosa significa? Che alcune convinzioni influenzano. In altre parole: un atteggiamento mentale distorce il mondo di pensare, sentire e agire. È come un filtro attraverso il quale si osserva il mondo. Non tutte le convinzioni si trasformano in atteggiamenti mentali. Gli atteggiamenti mentali sono idee fondamentali che riflettono la nostra filosofia di vita.

Cosa dice la scienza? Alcune convinzioni possono influenzare, ad esempio, la longevità. Uno studio condotto da ricercatori dell’università di Yale ha mostrato che avere una visione positiva dell’invecchiamento ci rende, in media, più longevi di quasi otto anni (si vive 7,6 anni più a lungo di quelli che hanno una visione negativa). E questo stesso atteggiamento mentale predice altre importanti conseguenze sulla salute, come:

  • chi manifesta una visione più positiva dell’invecchiamento ha un rischio di infarto inferiore all’80%;
  • influenza il recupero dopo gravi malattie e incidenti (gli adulti che associavano l’invecchiamento a stereotipi positivi come ‘diventare saggi’, ‘competenti’, si sono ripresi più rapidamente dopo un attacco di cuore rispetto a coloro che esprimevano stereotipi negativi, come ‘sentirsi inutili’, ‘bloccati nelle proprie abitudini’);
  • una visione positiva dell’invecchiamento ha predetto una ripresa fisica più rapida e più completa da una malattia o dopo un incidente debilitante.

Levy e i suoi colleghi nei diversi studi hanno misurato il ripristino di abilità oggettive, come la velocità della camminata, l’equilibrio e la capacità di svolgere le attività quotidiane. Le persone con una visione negativa dell’invecchiamento hanno maggiori probabilità di considerare le cattive condizioni di salute come un qualcosa di ineluttabile. Al contrario, le persone con un atteggiamento positivo si impegnano in comportamenti che promuovono la salute.

Cambiare idea sull’invecchiamento può favorire la manifestazione di comportamenti sani. Quando abbiamo una visione positiva dell’invecchiamento, siamo più disposti a fare cose che ci procureranno futuri benefici. Anche i ricercatori del German Centre of Gereontologu di Berlino confermano questi risultati.

Cosa indicano questi risultati? Il modo in cui pensiamo all’invecchiamento condiziona la salute e la longevità, non in ragione di un qualche potere mistico del pensiero positivo; più banalmente, influenzando i nostri obiettivi e le nostre scelte.

Questo è un esempio di un effetto dell’atteggiamento mentale. Più potente dell’effetto placebo. Altera l’esperienza attuale e influisce sul futuro.

Cosa significano per Motivation Moves People questi risultati? Il modo di pensare lo stress può condizionare la salute, la felicità, il successo. Il nostro atteggiamento mentale verso lo stress dà forma: dalle EMOZIONI che percepiamo durante una situazione stressante al MODO in cui AFFRONTIAMO gli eventi fonte di stress. E questo può DETERMINARE la possibilità di crescere sotto pressione, oppure di manifestare esaurimento e depressione. 

Vogliamo coltivare un atteggiamento mentale in relazione con lo stress che ci aiuti a prosperare? Motivation Moves People vi aspetta in aula!

 

Tratto da: Kelly McGonigal (2015). The upside of stress. Why stress is good for you, and how to get good at it. Penguin Publishing Group.

Auguri a tutti i papà! Come possiamo fare gli auguri in modo speciale?

Chiudiamo gli occhi. Richiamiamo alla mente il volto di nostro padre, o di quella figura che noi riteniamo padre.

La gratitudine può rendere la nostra vita più felice e più soddisfacente. Quando proviamo gratitudine, traiamo beneficio dal ricordo piacevole di un evento positivo della nostra vita e questo ci aiuta a far diminuire lo stress. Inoltre, quando esprimiamo la nostra gratitudine agli altri, rafforziamo il nostro rapporto con loro. A volte il nostro grazie è così distratto e veloce da perdere quasi significato. Oggi, con la ricorrenza della festa del papà, proviamo cosa significa esprimere gratitudine in modo profondo e ricco di significato.

Il regalo speciale è scrivere una lettera di gratitudine a nostro padre e consegnargliela di persona. Se non fosse più presente in questo mondo terreno, la scriviamo ugualmente e la leggeremo ad alta voce. La lettera descrive esattamente un fatto, un avvenimento … che nostro padre ha fatto per noi e come questo ha inciso sulla nostra vita. Accenniamo anche al fatto che spesso ci ricordiamo di quel suo gesto.

Scriviamo qualcosa di speciale!

Una volta scritta la lettera, lo chiamiamo e gli diciamo che vorremmo andarlo a trovare, ma senza specificare lo scopo della visita; questo esercizio è molto più divertente se contempla una sorpresa. Al momento dell’incontro, leggiamo con calma la lettera. Osserviamo le sue reazioni e le nostre. Se ci interrompesse, preghiamolo di ascoltare fino alla fine. Dopo avere letto la lettera (parola per parola), possiamo abbracciarlo e parlare del contenuto. Va bene anche una telefonata o, al limite, inviare la lettera; tuttavia l’effetto migliore si ottiene con la “lettura dal vivo”.

Se il nostro papà ci vegliasse dall’alto, dopo aver scritto la lettera, andiamo in un luogo calmo, tranquillo, speciale e dedichiamo almeno 5 minuti alla lettura ad alta voce della lettera. Lui, in quel momento, ci starà ascoltando…

La motivazione, per un individuo, è l’energia che lo anima

Ci capita di sentirci stressati e di mettere in dubbio i nostri talenti?

Che cos’è un talento? È qualche cosa che ci fa agire nel piacere, è una capacità innata, è facilità nel fare quello che già sapevamo fare da piccoli… è un ambito in cui riusciamo bene, da quando ce ne ricordiamo! Il talento è composto da cinque componenti: fattibilità, facilità, riproducibilità, piacere, riconoscimento. Pensiamo ad un nostro conoscente talentuoso… ha queste caratteristiche?

 

Francisco Cornejo è un bancario con un’infinita passione per il calcio. Gira per i campetti di periferia in cerca di nuovi talenti da segnalare alle squadre di Buenos Aires. Quel giorno, al campetto “Las Malvinas”, arriva un bambino di 9 anni, piccolo e con una folta capigliatura nera, che chiamano “el pelusa”. Appena Diego, il “pelusa”, inizia a palleggiare col suo piede sinistro, tutti gli altri ragazzi si fermano a guardare.

Francisco lo osserva con attenzione. Gli chiede di palleggiare anche con l’altro piede. Il risultato non dà la stessa ‘magia’. Si avvicina e dà al piccolo Diego Armando Maradona il suo primo e più importante consiglio tecnico: ‘d’ora in avanti, allenerai sempre, con tutto l’impegno che puoi, il tuo piede sinistro.’

Il 22 giugno 1986 a Città del Messico, nella partita dei quarti di finale dei campionati del mondo con l’Inghilterra, Maradona segna quello che per molti è da considerare il più bel goal della storia del calcio. Con 11 tocchi consecutivi del suo piede sinistro.

 

Quante volte abbiamo messo tutta la nostra energia nel tentativo di migliorare i nostri punti deboli, anziché imparare a scoprire e continuare ad esercitare i nostri punti di forza per farci affidamento?

Siamo anche noi convinti che lavorando su un difetto esso si trasformerà in una qualità? Pensiamo alla nostra vita fino ad oggi: quante volte ci è capitato di trasformare un difetto in qualità? Se sì, con quale rapporto energia-risultato? E se invece il nostro successo fosse quello di costruire noi stessi sviluppando i nostri punti di forza? … che non significa che non si debba fare nessuno sforzo per migliorarsi, pensando: ‘Non ci provo nemmeno, tanto non ci riesco’. La domanda da porsi: questo punto debole, rispetto alla mia vita e a ciò che voglio, è fondamentale, importante, vitale o necessario? Oppure è trascurabile, inutile?

 

Se noi esercitiamo e mostriamo i nostri talenti, cosa avviene dentro di noi? Come ci sentiamo? L’autostima aumenta, ci sentiamo felici e con più energia; proprio questo ‘benessere’ traina i nostri punti più deboli.

 

Come possiamo essere consapevoli dei nostri punti di forza? Un semplice, e divertente ‘esercizio’ è quello di contattare due o tre amici, familiari e chiedere: ‘Puoi dirmi in poche parole che cosa apprezzi di me? Quali sono i miei punti di forza?’ oppure ‘Come mi presenteresti ad un amico in poche parole?’. È possibile che attraverso questo tipo di gioco si scoprano talenti a noi ‘nascosti’, perché a volte non si ha il coraggio di riconoscere le proprie qualità (e possiamo anche contraccambiare il nostro amico, la nostra amica mostrandogli/le i suoi talenti).

 

È ormai consueto sentir dire ‘prendersi cura di se stesso’… cosa significa, se non anche prendersi cura dei propri talenti!

È fondamentale fidarsi di: ciò che si ha; ciò che si è; ciò che si sa fare; ciò che si farà.

I nostri talenti sono un dono. Se non li coltiviamo, non ci sarà nessun cambiamento e i nostri punti deboli avranno campo libero per svilupparsi’.

 

Conosciamo i nostri punti di forza? I nostri talenti? Ne facciamo un uso consapevole?

 

Tratto da:
Xavier Cornette de Saint Cyr (2011). Quaderno d’esercizi per scoprire i propri talenti nascosti. Milano: Vallardi Editore