Essere manager richiede coraggio, determinazione e molta pratica

Il 24 agosto, MITSloan Management Review pubblica un articolo di Detert, Kniffin, Leroy dal titolo ‘Saving Management from our obsession with leadership’ e voracemente lo leggo. Così interessante, ricco che decido di riportare o riassumere alcuni passaggi.

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Per decenni abbiamo “elevato” i leader e denigrato come “pedanti” i manager, pur sapendo quanto sia la pratica manageriale incredibilmente difficile e preziosa. Nel 1977, lo studioso di leadership Abraham Zaleznik ha messo i leader e la leadership su un piedistallo e di converso ha denigrato come banali le attività svolte dai manager.
La pandemia COVID-19 ha mostrato, invece, quanto le aziende abbiano avuto un disperato bisogno di persone che sapessero coordinare l’azione, risolvere problemi tecnici e affrontare abilmente la miriade di sfide umane che i dipendenti e le altre parti interessate hanno dovuto affrontare. Abbiamo avuto bisogno di manager in grado di mantenere le cose in ordine e supportare i dipendenti, non leader che tenessero discorsi commoventi ma distaccati dalle operazioni quotidiane.

Le cosiddette Grandi Dimissioni sono state piuttosto eloquenti al riguardo. Le persone che si sono licenziate in massa non l’hanno fatto perché il top executive della loro azienda non è sufficientemente visionario o ispiratore. Piuttosto, le persone hanno lasciato lavori scadenti, lavori che mancano di autonomia, varietà o opportunità di crescita; lavori che pagano male e non premiano equamente le prestazioni; lavori che non sono chiaramente definiti e strutturati; lavori privi di guardrail che impediscano il sovraccarico cronico e la frustrazione. Hanno anche lasciato i loro capi diretti, la cui mancanza di competenza manageriale quotidiana, affidabilità, inclusività e cura non è più tollerabile. E hanno lasciato le organizzazioni che hanno violato i contratti psicologici con i dipendenti contravvenendo alle regole non scritte di fiducia, equità e giustizia.

Se il numero di lavoratori che hanno lasciato il lavoro è stato straordinario, soprattutto in alcuni settori, i motivi non sono nuovi e non dovrebbero sorprenderci. I ricercatori organizzativi studiano il turnover da decenni. Le cause citate oggi, inclusa una scarsa soddisfazione sul lavoro, un basso senso di appartenenza e un minor coinvolgimento associati a una cattiva gestione, sono le stesse identificate in centinaia di studi individuali e molteplici meta-analisi. Nel decennio precedente la pandemia, ad esempio, la percentuale di dipendenti altamente coinvolti non ha mai superato il 22% tra i milioni di intervistati, e la relazione tra basso coinvolgimento e alto turnover è stata ben documentata. La pandemia da COVID-19 potrebbe essere stata un punto di svolta per ciò che le persone sono disposte a sopportare o a non sopportare più sul lavoro, ma non ha creato o modificato in modo significativo i problemi sottostanti: sono diffusi da molto tempo.

Perché questi problemi sono così onnipresenti e duraturi? Perché le organizzazioni e i top team minimizzano o ignorano quanto sia difficile essere semplicemente un buon manager: assumere, coinvolgere, sviluppare, istruire, supervisionare, valutare e promuovere abilmente le persone. I workshop sulla leadership sono ampiamente disponibili, ma tendono a concentrarsi su preoccupazioni di alto livello e dedicano poco o nessun spazio all’insegnamento di queste abilità fondamentali e critiche. […] Al contrario, hanno interiorizzato il messaggio forte che qualità come la visione strategica e la presenza esecutiva contano molto di più, lasciando i leader e le loro organizzazioni scarsamente attrezzati per affrontare la realtà.

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I buoni manager progettano buoni lavori

Un’attenta progettazione del lavoro è spesso associata all’efficienza organizzativa. Certamente ha quel vantaggio, ma c’è anche un vantaggio psicologico: i manager possono soddisfare le esigenze di autodeterminazione dei dipendenti, ovvero di appartenenza, autonomia e senso di competenza, creando lavori che coinvolgono le persone senza farle esaurire. Mission e vision da sole non servono a queste funzioni.

I manager definiscono ruoli e compiti e forniscono risorse per svolgerli. Esaurimento, frustrazione, confusione, errori, esplosioni e burnout: queste sono le conseguenze di lavori privi di chiarezza e limiti; sono le cose che accadono prima che le persone lascino o vengano licenziate. Conosciamo questi risultati negativi da anni, da molto prima del COVID-19.

I buoni manager li prevengono definendo in dettaglio ruoli e compiti dei dipendenti. Spiegano obiettivi e aspettative, chiariscono il lavoro da svolgere, specificano a cosa dare la priorità, stabiliscono relazioni e canali di comunicazione e controllano periodicamente la comprensione di questi parametri per vedere se sono necessari ulteriori precisazioni. Queste attività di “strutturazione”, in gran parte ignorate negli ultimi decenni nonostante le numerose ricerche che ne hanno dimostrato l’importanza, forniscono stabilità, che consente ai dipendenti di sentirsi competenti e in controllo.

Spesso il problema non è che i ruoli non sono mai stati definiti; piuttosto, è che non sono stati aggiornati per stare al passo con i cambiamenti organizzativi, che trasforma ruoli inizialmente gestibili in ruoli schiaccianti. Se chiedi a un dipendente cosa è stato aggiunto al suo piatto negli ultimi mesi o anni, molto probabilmente può snocciolare un elenco impressionante. Ma se chiedi cosa gli è stato tolto dal piatto o cosa va bene smettere di fare, probabilmente avranno più difficoltà a trovare degli esempi.

Nella maggior parte delle organizzazioni, i manager sono molto più bravi nell’aggiungere lavoro per soddisfare esigenze sempre crescenti piuttosto che cessare attività che non sono più veramente importanti o che non valgono i problemi che stanno causando. Cessare un’attività, un compito, spesso richiede coraggio perché qualcuno ha investito in “ciò che abbiamo sempre fatto”. Fermare le cose significa che alcune persone potrebbero sentirsi inizialmente meno competenti o vedere il loro status declinare, o che alcuni gruppi ora abbiano meno potere o meno risorse. Così, temendo contraccolpi (o proteggendosi da queste stesse possibilità), molti manager non riescono a sottrarre responsabilità e compiti per aiutare i dipendenti a rimanere sani di mente. Un approccio più costruttivo è lottare per abbinare le risorse alle nuove esigenze. […]

[…] Non ha senso parlare di definire limiti e aspettative ragionevoli se i manager stessi – e i loro manager – inviano e-mail a tutte le ore, lavorano durante ogni vacanza e rispondono di sì a ogni nuova richiesta dall’alto. Non dovrebbe essere necessario avere il coraggio di dire di no o di creare messaggi automatici come “sono fuori sede”. Quando i manager fanno queste cose per primi, consentono agli altri di seguire il loro esempio senza timore di ripercussioni.

I manager progettano per la motivazione. Rendere il lavoro più gestibile è un inizio importante, ma non basta. Il lavoro stesso deve anche avere il potenziale per essere motivante su base continuativa. Ciò comporta la presa in considerazione della varietà e del significato delle attività nella progettazione del lavoro, assicurandosi che sia chiaro come appare il successo e creando opportunità regolari di crescita nel lavoro. Sfortunatamente, molti lavori mancano ancora di una o più di queste caratteristiche, anche se sappiamo da tempo i loro benefici motivazionali.

I buoni manager si prendono il tempo per identificare i problemi che possono far sembrare un lavoro intorpidito o privo di significato. Possono farlo attraverso conversazioni schiette con i dipendenti attuali o domande mirate poste durante i colloqui di uscita. I buoni manager affrontano i problemi che trovano, idealmente consentendo ai dipendenti di avere voce in capitolo su come i loro lavori potrebbero essere rielaborati per essere più motivanti. […]

[…] Mentre la struttura chiara previene il burnout, la microgestione estingue la creatività e l’iniziativa. Dopo avere chiaramente definito cosa deve essere fatto, a quale livello di qualità, per chi e entro quando, i buoni manager si tolgono di mezzo e si fidano delle persone per fare il loro lavoro. […] Le persone desiderano da tempo l’autonomia per determinare quando, dove e come fare il loro lavoro.

I buoni manager sviluppano le persone a standard elevati

[…] L’evidenza è chiara: trattare bene i dipendenti aiuta a soddisfare il loro bisogno di appartenenza.

Sebbene alcuni manager abbiano difficoltà su questo, molti altri vanno troppo oltre nella direzione opposta e non riescono a mostrare un “duro amore” quando è necessario. Quando essere amichevoli vira troppo vicino all’essere amici, a volte per il desiderio di essere adorati piuttosto che temuti dai dipendenti, i manager spesso lasciano il lavoro sporco di avere conversazioni difficili agli altri. Smettono di dire verità dure sulle aree di miglioramento o di affrontare comportamenti scorretti, minando sia la crescita dei dipendenti che le prestazioni organizzative.

I buoni manager capiscono che tale feedback è essenziale e non esitano a fornirlo per supportare lo sviluppo dei dipendenti e ritenere le persone responsabili.

I manager dicono tutta la verità su sviluppo e prestazioni. Tutti hanno margini di miglioramento. Anche i performer più forti hanno bisogno di qualcosa di più di un riconoscimento per un lavoro ben fatto; hanno anche bisogno di un feedback costruttivo su dove non sono stati all’altezza o su quali abilità dovrebbero lavorare. Tutti tranne i più grandi narcisisti sono consapevoli di non essere perfetti. I dipendenti sanno intuitivamente che i manager che non sono disposti a fornire un feedback onesto sullo sviluppo e sulle prestazioni probabilmente non stanno dicendo tutta la verità su molte altre cose.

Infine, non è “bello” nascondere informazioni che faciliterebbero il miglioramento e risparmierebbero alle persone tempo o energia preziosi. Ad esempio, in troppi casi, i dipendenti sono tenuti in sospeso piuttosto che dire a loro il perché non otterranno l’opportunità o la promozione desiderata. Questo non è gentile. È codardia: la prova di un manager che ha troppa paura per avere conversazioni difficili ed emotive. Anche nascondere un feedback onesto è un segno di mancanza di rispetto – è un’affermazione implicita secondo cui i dipendenti sono troppo fragili per ascoltare la verità e che preferirebbero avere una visione positiva distorta di sé stessi piuttosto che l’intera storia.

I manager affrontano un cattivo comportamento. I buoni manager denunciano anche i cattivi comportamenti. Non si limitano a dire “Non è un grosso problema” o dicono che se ne occuperanno in seguito per evitare di avere una conversazione difficile o prendere la decisione difficile ora. In breve, non si impegnano in razionalizzazioni che li rendono ciechi su ciò che è. Affrontano la propria paura di confronti scomodi o la riluttanza ad affrontare le ricadute.

I buoni manager si concentrano sull’equità

Il management non avviene nel vuoto. Il modo in cui i dipendenti si sentono riguardo al loro lavoro, alla loro organizzazione e alle loro relazioni con i colleghi e il loro manager si basa principalmente su giudizi. Non è solo quanto paghi qualcuno o come parli o valuti loro che conta; si preoccupano anche di come paghi, tratti e valuti coloro che li circondano. Le percezioni di equità contano molto e quelle percezioni si basano su confronti.

Quando la percezione dell’ingiustizia aumenta, la soddisfazione, l’impegno e lo sforzo dei dipendenti diminuiscono. Come mai? Perché queste percezioni minano la fiducia, privano i dipendenti della chiarezza, stabilità e sicurezza che cercano. Ecco perché i buoni manager non si limitano a evitare le ovvie violazioni della fiducia come urlare, insultare, rubare idee o discriminare sfacciatamente gli altri. Svolgono anche il duro lavoro necessario per creare e attenersi a processi equi e ritenere le persone responsabili del loro seguito.

I manager danno priorità ai processi. Per arginare le dimissioni, molte organizzazioni stanno aumentando la retribuzione e stanno iniziando a offrire vantaggi più generosi. Ma anche in contesti in cui questi cambiamenti sono assolutamente necessari, come la ristorazione e la vendita al dettaglio, non sono sufficienti. Anche i dipendenti si preoccupano molto di come le cose si decidono. Quali sono i processi per determinare come le persone vengono retribuite, premiate, promosse, selezionate per incarichi speciali o opportunità di apprendimento e così via? E tutti sottostanno agli stessi processi? Sul posto di lavoro, questi aspetti della giustizia procedurale spesso contano tanto per le persone così come i risultati equi. I buoni manager lo capiscono. Stabiliscono linee guida chiare per il processo decisionale, spiegano cosa sono e come vengono seguite e le applicano in modo coerente; tutto ciò gioca un ruolo enorme nella soddisfazione dei dipendenti e nell’intenzione di rimanere. Spiegano anche perché vengono prese certe decisioni, ad esempio che un minor numero di persone riceverà valutazioni migliori perché l’azienda cerca di differenziare e premiare meglio l’eccellenza, e di informare in modo più onesto i dipendenti su dove si trovano, anche quando sanno che quelle decisioni non saranno apprezzate dalle persone interessate.

[…]

I manager affrontano le ingiustizie. I danni involontari si verificano. Ad esempio, le negoziazioni per assumere o mantenere un dipendente di alto valore – o, se è per questo, solo per ricoprire ruoli critici – possono far sì che altri dipendenti si sentano sottopagati o non apprezzati. Le decisioni mantenute riservate su richiesta di un dipendente possono far sentire gli altri esclusi da qualcosa che li riguarda direttamente. Ciò è particolarmente vero in ambienti dinamici, dove non tutte le promesse fatte possono essere mantenute e non tutti i sistemi si dimostrano durevoli al variare delle condizioni. Quelle sono solo realtà, non segni di cattiva gestione.

La qualità della gestione è determinata da ciò che accade dopo in questi casi. Ad esempio, i buoni manager respingono i cambiamenti apportati dai livelli più alti che stanno influenzando indebitamente il personale. Non si nascondono dietro lo spostamento di responsabilità, accettando passivamente che “qualcuno sopra di me ha preso la decisione”. Invece, cercano di invertire le decisioni sbagliate. […]

Essere un buon manager non richiede di mettere in gioco il proprio lavoro. Tuttavia, implica la volontà di correre qualche rischio cercando di riparare i torti contro i dipendenti. La tua organizzazione doveva offrire di più per coinvolgere nuovi dipendenti? Bene. Ora combatti per ottenere lo stesso accordo con altre persone.

I buoni manager affrontano direttamente anche le proprie promesse non mantenute e le incongruenze. Ascoltano quando le persone esprimono rabbia o delusione e cercano di trovare alternative accettabili. E quando non riescono davvero a riparare qualcosa, lo dicono e si scusano per non aver sistemato le cose. Anche se ciò non impedisce una violazione della fiducia, può comunque evitare una rottura in piena regola dell’accordo implicito che mantiene i dipendenti connessi alla loro organizzazione.

Chiaramente, sarebbe molto più facile per i manager dire che stanno facendo tutto il possibile per sostenere l’equità, ma poi alzare la mano quando le cose non vanno come sperato. Ma così facendo minano l’integrità comportamentale: un impegno a perseguire l’equità come valore piuttosto che limitarsi a parlare della sua importanza. Ciò richiede una forza reale e, purtroppo, la ricerca mostra che accade troppo di rado.

Niente di tutto questo vuol dire che una leadership audace e visionaria non sia importante. In determinate situazioni, può essere essenziale, ad esempio per ribaltare un’organizzazione stagnante o in fallimento, affrontare un’interruzione tecnologica o avviare una nuova linea di attività. Né accettiamo una visione dicotomizzata degli esseri umani e delle loro capacità. Ci sono chiaramente persone che possono immaginare il futuro e condividere in modo persuasivo i loro piani e lavorare con gli altri per realizzarli.

Ma implementare una missione o una visione è fondamentale tanto quanto immaginarla e dobbiamo iniziare a trattarla in questo modo.

[…]

Il successo organizzativo dipende almeno tanto da questo lavoro quotidiano quanto dalle cose nobili. Senza una forte esecuzione, il grande pensiero – missioni basate sui principi, visioni avvincenti e strategie intelligenti – è poco.

Nonostante l’enorme attenzione data agli aspetti ispiratori della leadership, l’evidenza è chiara: la maggior parte delle persone sul posto di lavoro non è ancora ispirata, coinvolta o veramente impegnata. Molti stanno uscendo o pensano di uscire. Una buona gestione può aiutare a risolvere questi problemi. Non è meno preziosa di una buona leadership – ammesso che si debba fare una tale distinzione – né è più facile. Richiede coraggio, grinta e molta pratica. Ed è fondamentale per come le persone si sentono riguardo alla loro organizzazione, come si comportano e se rimangono. Smettiamola di fingere che sia un insieme di abilità minori e prendiamo sul serio la sua costruzione.

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Dopo aver letto l’articolo mi sono chiesta: e se i leader anziché creare visione e mission facessero gli operativi, i manager come potrebbero esercitare la propria funzione?

Poni ai tuoi diretti collaboratori queste 5 domande nel tuo prossimo check-in

In data 31.01.2022 HBR (Harvard Business Review) dava questo consiglio…

Se sei preoccupato che i tuoi dipendenti stiano guardando altrove, è ora di iniziare ad avere alcune conversazioni importanti. Ecco cinque domande chiave da porre ai tuoi collaboratori diretti al prossimo faccia a faccia per assicurarti che si sentano “visti e apprezzati”, prima che sia troppo tardi.

  1. Come vorresti crescere all’interno di questa organizzazione? Identifica le opportunità di sviluppo professionale di cui hanno bisogno, che si tratti di coaching, tutoraggio, maggiore visibilità o progetti più impegnativi. È più probabile che rimangano se sentono di essere in una fase di crescita.
  2. Senti uno scopo nel tuo lavoro? Attingi a ciò che è significativo per loro e collegalo ai valori dell’organizzazione.
  3. Di cosa hai bisogno da me per fare il tuo lavoro al meglio? Preparati a dedicare più tempo e risorse per aiutare i tuoi dipendenti a sentirsi realizzati.
  4. Cosa non stiamo facendo attualmente come azienda che ritieni dovremmo fare? Chiedere cosa ritengono che l’azienda potrebbe fare meglio – quali opportunità di mercato potrebbe trascurare, come sfruttare le risorse in modo più efficace, ecc. – comunica che i loro pensieri e opinioni contano.
  5. Riesci a fare del tuo meglio ogni giorno? Ciò ti consente di capire se i tuoi collaboratori stanno ottimizzando i loro punti di forza. Potresti continuare con “Quale parte del tuo lavoro elimineresti se potessi?” Non fare promesse, ma sapere quali aspetti del loro lavoro sono meno e più divertenti ti aiuterà ad apportare le modifiche necessarie per assicurarti che rimangano.

… forse è il momento di ascoltare i nostri collaboratori (anche se non abbiamo la sensazione che stiano andando altrove).

Questo suggerimento è adattato da “5 Questions Every Manager Needs to Ask Their Direct Reports“, di Susan Peppercorn.

Gentilezza del leader

Perché scrivere ancora di gentilezza, avendone già parlato (verso noi stessi e al lavoro?

Una recente ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista  The Academy of Management Journal il 5 gennaio 2021  (e ripresa da Stephen Jones su Management Today) suggerisce che mostrare gentilezza possa effettivamente aumentare la performance e che invece, in caso di sua mancanza, la performance ne risenta negativamente.

Il romanziere statunitense Henry James avrebbe dato tre consigli al nipote giunto al suo primo giorno di scuola. Ci sono tre cose nella vita umana che sono importanti: “Il primo è essere gentili. Il secondo è essere gentili. Il terzo è essere gentili.” Anche se forse le origini di questo riferimento non sono corrette, il messaggio invece…

Tutto è così incerto, le persone sono alle prese con paure e ansie, gestendo il lavoro (e la scuola) in modalità smart (o ibrida) e il compito del leader è trovare un modo per farli lavorare tutti verso lo stesso risultato, nonostante desideri, bisogni e aspirazioni differenti. Non è facile, e si può perdere la pazienza.

Ora una recente ricerca pubblicata su The Academy of Management Journal suggerisce che mostrare gentilezza possa effettivamente aumentare le prestazioni, o almeno che la mancanza di gentilezza danneggi le prestazioni.

Le ricercatrici Kira Schabram (che ho conosciuto presso Concordia University quando era ancora ‘studentessa’ e con la quale abbiamo collaborato nella stesura di un articolo proprio sulla leadership) e Yu Tse Heng dell’Università di Washington hanno misurato l’impatto della compassione tra un gruppo di lavoratori di servizi sociali e studenti stressati (in burnout). Hanno verificato che le “espressioni di compassione” possono ridurre i livelli di burnout minimizzando l’esaurimento, il cinismo e l’inefficacia. Le espressioni studiate sono di due tipi: o spinte che incoraggiano una persona a essere gentile con sé stessa o espressioni di compassione di un manager diretto.

Le studiose hanno evidenziato che le espressioni di compassione hanno il potenziale di generare rimedi benefici (come autocontrollo, appartenenza, autostima) che riducono le dimensioni del burnout.

Ancora oggi la gentilezza è sottovalutata in quanto tratto di leadership; proprio per questo è nata una collaborazione tra Saïd Business School, Global Thinkers Forum, Women of the Future e Hall & Partners dove è stato recentemente lanciato un premio per evidenziare le azioni di leader gentili in tutto il mondo.

La descrizione sul sito web della campagna Kindness & Leadership 50 Leading Lights definisce i leader gentili come coloro che si connettono con gli altri, permettono ai colleghi ad avere successo, ispirano la creatività e sono disposti a dedicare il loro tempo agli altri. Ci sono molti modi per fare tutto questo, e nessuno di loro implica gridare!

Ma la gentilezza non è solo organizzare una chiamata Zoom per conoscere qualcuno, ringraziare le persone per il loro duro lavoro o inviare loro biscotti. Si tratta anche di essere onesti e schietti.

La tecnica dell’Appreciative Inquiry

Quale tecnica si può usare per accelerare un cambiamento? Per rileggere le situazioni che abbiamo vissuto e tenerne gli aspetti positivi? Sappiamo che possiamo allenare il nostro cervello, ora scopriamo, rileggendo un articolo scritto da Gianluca Braga, Strumenti e metodi per una valutazione ‘positiva’: l’Appreciative Inquiry, cosa possiamo fare in team o in azienda (e anche in associazione, in casa…)

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Francisco Cornejo è un bancario con un’infinita passione per il calcio. Gira per campetti di periferia in cerca di nuovi talenti da segnalare alle squadre di Buenos Aires. Quel giorno, al campetto “Las Malvinas”, arriva un bambino di 9 anni, piccolo e con una folta capigliatura nera, che chiamano “el pelusa”. Appena Diego, il “pelusa”, inizia a palleggiare col suo piede sinistro, tutti gli altri ragazzi si fermano a guardare.

Francisco lo osserva con attenzione. Gli chiede di palleggiare anche con l’altro piede. Il risultato non dà la stessa “magia”. Si avvicina e dà al piccolo Diego Armando Maradona il suo primo e più importante consiglio tecnico: “d’ora in avanti, allenerai sempre, con tutto l’impegno che puoi, il tuo piede sinistro”.

Il 22 giugno 1986 a Città del Messico, nella partita dei quarti di finale dei campionati del mondo con l’Inghilterra, Maradona segna quello che per molti è da considerare il più bel gol della storia del calcio. Con 11 tocchi consecutivi del suo piede sinistro… (adattato da A. Chelo, 2008)

[…] Come allenare il piede sinistro in azienda?

Cos’è l’Appreciative Inquiry?

L’Appreciative Inquiry (AI, da qui in avanti) è un costrutto sviluppato negli anni ’80 da David Cooperrider e Suresh Srivastva, da cui derivano pratiche utilizzate originariamente in contesti organizzativi, ed è sostanzialmente volto a migliorare tali sistemi. Queste pratiche sono però state adattate all’ambito valutativo, in particolare con i lavori di Hallie Preskill, divenuta oltretutto nel 2007 Presidente dell’American Evaluation Association.

L’AI si basa su un semplice assunto di fondo: le persone – e le organizzazioni che esse compongono – che si concentrano sulla “metà vuota” del bicchiere d’acqua, i “pessimisti”, adotteranno un approccio ai problemi “classico”: si focalizzeranno su di essi per individuarne le cause e ipotizzare di conseguenza le relative azioni di miglioramento. Secondo l’AI, però, è verosimile che coloro che si concentrano sulle difficoltà, finiranno con il rimanere vincolati ad esse, poiché tenderanno ad insistere su debolezze e difficoltà proprie del sistema e delle persone che lo compongono (il piede destro). Chi invece sviluppa un approccio più ottimista e preferisce soffermarsi sulla “metà piena” del bicchiere, si concentrerà maggiormente sugli aspetti positivi e sarà per lui più semplice individuare nuove possibilità e validi sviluppi positivi, facendo leva invece sui talenti e sulle potenzialità delle persone (il piede sinistro).

A partire da questo semplice assunto, l’AI ha sviluppato delle prassi metodologiche che facilitano una lettura delle potenzialità di un sistema di persone, a partire dalle quali pensare ai futuri obiettivi.

Strettamente connessi all’idea-base, l’AI fa riferimento ad altri concetti fondanti molto coerenti con un approccio positivo:

  • In qualsiasi persona o gruppo, si può sempre rintracciare qualcosa di positivo, che può essere utilizzato come esempio concreto e motore per il miglioramento. È però necessario concentrare l’attenzione su di esso, senza farsi sviare dalle criticità che spesso sono più evidenti.
  • Il fatto stesso di porre (e porsi) delle domande consente di sviluppare maggiore consapevolezza ed è già una forma di cambiamento che viene attuata nel momento stesso dell’indagine.
  • Le parole ci aiutano a costruire le storie che danno significato e valore ai fatti che viviamo; “la bellezza (o il suo contrario) è negli occhi di chi guarda”. In altri termini, siamo noi a costruire la nostra realtà e lo facciamo attraverso il “racconto” di ciò che accade; intervenire su questo racconto significa modificare la (nostra) realtà.

[…]

Come “si fa” l’’Appreciative Inquiry?

Il modello più diffuso, sviluppato dagli autori citati prevede quattro passaggi (il “modello 4- i”). Di seguito viene riportato con maggiore dettaglio il primo di questi passaggi, poiché più associabile alle pratiche valutative.

Inquiry. È la fase di ricerca vera e propria, che viene condotta prevalentemente attraverso interviste alle persone coinvolte nei processi oggetto di indagine. A differenza delle modalità utilizzate tradizionalmente, però, l’AI propone di indagare specificamente le potenzialità e gli aspetti positivi dell’oggetto di ricerca (la persona stessa, l’organizzazione in cui è inserita, il programma che sta realizzando…). L’obiettivo è quello di far emergere (alla consapevolezza degli attori protagonisti) il meglio di ciò che è presente in loro e nel sistema cui appartengono.

Gli “ambiti” all’interno dei quali queste “eccellenze” vengono ricercate, sono tre:

  • Le esperienze: quelle situazioni, “comportamenti”, collocabili in un preciso momento e luogo, che costituiscono il maggior livello di successo e soddisfazione per le persone coinvolte. Tali eccellenze devono essere convenientemente precisate in termini di tempi e luoghi; di persone presenti e coinvolte, direttamente e non; di pensieri e fatti accaduti. Questo per rendere tali esperienze comunicabili e condivisibili e per facilitare il riconoscimento delle cause che hanno portato a tali successi.
  • La cultura di appartenenza: l’insieme dei valori che guidano le azioni delle persone e che – in quanto tali – costituiscono un riferimento prezioso da rendere evidente e manifesto in quanto prodotto dell’esperienza maturata.
  • Le aspirazioni individuali e/o il mandato dell’organizzazione: in altri termini, i sogni, i desideri e tutto ciò che costituisce un valore per le persone e che risulta di fondamentale importanza in termini di motivazioni e spinta al raggiungimento degli obiettivi professionali e non.

Al termine di questa prima fase, se correttamente condotta, risulta chiaro, esplicito e condiviso il potenziale delle persone coinvolte, la loro competenza, che non è soltanto astratta, ma si è già evidenziata in episodi concreti; sarà anche più facilmente intuibile la direzione verso la quale le persone intendono dirigersi e quali valori guidano questo percorso.

Le fasi successive del modello dell’AI sono meno legate al processo valutativo inteso in senso stretto. Vanno invece a guidare una sorta di problem solving prevalentemente organizzativo (anche se facilmente riconducibile a processi individuali), volto a sviluppare azioni di miglioramento, in una logica di applicazione degli esiti valutativi.

Imagine: andare oltre lo status quo, rappresentando situazioni future che siano vitali, concrete e – per qualche verso – migliori. Non differisce di molto dal terzo ambito della fase di Inquiry, salvo che questo è – all’interno delle organizzazioni – frutto di un processo negoziale e di co-costruzione degli obiettivi.

Innovate: rivedere gli elementi dell’organizzazione (valori, struttura, persone, procedure, risorse…) che devono essere modificati per poter raggiungere gli obiettivi condivisi nel passaggio precedente. In altri termini, si tratta di “ingegnerizzare” il processo di cambiamento auspicato all’interno dei meccanismi del contesto che deve mutare.

Implement: (ovviamente) si tratta infine di realizzare quanto ipotizzato, alla luce della fase di Inquiry. L’indicazione più rilevante in questo caso è quella di prevedere comunque una sorta di monitoraggio continuo dell’andamento dell’organizzazione, attraverso gli strumenti e le metodologie dell’AI. Instaurando così una sorta di circolo virtuoso che consenta di rileggere periodicamente il proprio potenziale attuato e le proprie spinte motivazionali e mettere queste al servizio di un processo di miglioramento continuo, anche se non prederminato.

Comunque consapevoli dell’orribile difficoltà nel convincere le persone a smettere di lamentarsi e a guardare ciò che di buono c’è in loro, nel mondo attorno a loro e… nei colleghi.

Bibliografia

Chelo, A. (2008). Il manager mancino. Milano: Sperling & Kupfer.

Cooperrider, D., Whitney, D. (2005). Appreciative Inquiry: A positive revolution in change. Berrett-Koehler Publishers.

Cooperrider, D. L., Whitney, D., Stavros, J. M. (2008). Appreciative Inquiry Handbook (2nd ed.). Brunswick, OH: Crown Custom Publishing, Inc.

Montano, A. (2007). Mindfulness. Guida alla meditazione di consapevolezza. Ecomind.

Preskill, H., Catsambas, T. T. (2006). Reframing evaluation through Appreciative Inquiry. Sage Publications, Inc.

Stiamo andando ad Abilene?

Durante un caldo pomeriggio in una piccola cittadina del Texas una famiglia sta giocando a carte quando il capofamiglia suggerisce di recarsi per cena ad Abilene, cittadina che dista circa 50 miglia. La figlia dice “Sembra una grande idea!”. La moglie, pur avendo qualche riserva per il lungo viaggio e il caldo, pensa che sia più importante mantenere armonia nel gruppo e dice: “Mi sembra ottimo! Spero solo che tua madre voglia venire”. La suocera dice: “Certamente vengo volentieri”.
Il viaggio è lungo, caldo e stancante. Quando arrivano al ristorante il cibo è pessimo. Tornati a casa dopo 4 ore sono “distrutti”. Uno di loro dichiara “E’ stato un gran bel viaggio, non è vero?”. La suocera risponde dicendo che in verità lei sarebbe stata volentieri a casa ma visto l’entusiasmo aveva accettato per non rovinare l’armonia. La figlia a quel punto esclama: “Nemmeno io volevo andare ma ho detto di sì perché tutti voi volevate andare!”. La moglie: “Io sono venuta per far felici voi. Solo un folle sarebbe uscito con questo caldo”. Il marito infine disse che aveva proposto il viaggio solo perché pensava che gli altri si stessero annoiando…

Leggiamo questa storia considerando la leadership orizzontale e la gestione dell’intelligenza collettiva. Cosa può evidenziare? Che l’essere umano tende ad:

In altre parole, ci si lascia trascinare da persone assertive e dominanti. Gli studi (i primi, 1997, sono firmati da Paulhus e Morgan; si veda anche Cameron e Kilduff, 2009) evidenziano che percepiamo le persone loquaci come più intelligenti di quelle silenziose.

Abbiamo anche la tendenza a considerare i loquaci come leader naturali. Più un individuo parla, più gli altri membri del gruppo concentrano l’attenzione su di lui, più gli attribuiscono autorevolezza e autorità man mano che la discussione prosegue. Giova anche parlare velocemente: giudichiamo costoro più capaci e piacevoli rispetto a chi parla lentamente. La ricerca non conferma il legame tra oratoria fluente e maggior acume.

Uno studio in ambito universitario, ad esempio, ha mostrato che gli studenti che parlavano per primi e più di frequente ottenevano in genere punteggi più alti, anche se le loro risposte non si erano rivelate migliori di quelle degli studenti meno loquaci.

Come possiamo non cadere in questa trappola? Come evitare di andare ad Abilene?
Il paradosso di Abilene mostra la nostra tendenza a seguire coloro che prendono l’iniziativa, quale essa sia. Spesso non sappiamo distinguere tra buone capacità di presentazione e vera dote di leadership. In merito un noto investitore, afferma: “È fin troppo facile confondere la parlantina con il talento. Chi si presenta come buon comunicatore, cordiale, vede premiate queste caratteristiche. Perché mai? Sono tratti positivi, certo, ma diamo eccessiva importanza alla presentazione e non sufficiente rilievo al contenuto e allo spirito critico”.

Quando la prossima volta lavoriamo con il nostro team, con i nostri collaboratori… possiamo usare una frase con simpatia e chiederci ‘Stiamo salendo sull’autobus per Abilene?’ affinché anche il collaboratore, collega, leader silente (pacato, umile, modesto, riservato, timido, gentile, mite, schivo, sobrio…) possa dire la sua e far sì che venga presa in considerazione.

Tratto da:

Harvey, Jerry B. (1988), The Abilene paradox and other meditations on management, Lexington

Cain, Susan (2012). The power of introverts in a world that can’t stop talking.

Hai mai dedicato del tempo a interessarti personalmente a un tuo collaboratore? Ogni quanto?

‘Nel mio percorso professionale ho avuto la prova che, per arrivare ad avere un rapporto sincero e costruttivo con un collaboratore, occorre interessarsi davvero a lui (o lei). Sembra scontato, ma non è facile per niente, vista la moltitudine di attività che tocca svolgere durante una giornata.

La reciproca fiducia si ottiene quando entrambi – il team leader e il singolo componente della squadra – riescono ad aprirsi, a parlare di se stessi, a condividere le esperienze. Un manager che guarda lontano e intende costruire una solida rete intorno a sé, non dovrà sentirsi a disagio nel mostrare i propri punti di forza e le sue debolezze.

Conoscere le passioni dei tuoi uomini e delle tue donne, capire quali siano state le loro esperienze positive e negative, è un punto di partenza necessario per aiutare il tuo team a crescere e ottenere risultati. Se penserai solo a te stesso, se nella relazione con il gruppo ti metterai naturalmente al centro dell’attenzione, è facile che duplicherai quell’atteggiamento. Ecco allora che i tuoi collaboratori si comporteranno allo stesso modo con i vostri clienti, con i fornitori e i partner. Di fatto, ti prenderanno a modello pensando che quello stile di leadership sia vincente. E invece di ascoltare i clienti, si metteranno a fare un bel comizio sulle proprie doti personali!

Per evitare allora di duplicare atteggiamenti negativi per il vostro… fatturato, utilizza i momenti di pausa – un caffè, un aperitivo, qualche evento fuori dal solito contesto – per conoscere meglio le tue persone e capire in che modo poter entrare in sintonia con loro. Non puoi neanche immaginare le rivelazioni positive, sfumature che di solito nel corso della giornata di lavoro (tra la frenesia del fare e il focus sui risultati) sfuggono. Ricorda che dietro a ogni persona c’è una storia. Equella storia può essere responsabile dei comportamenti positivi o negativi delle persone.

Fai in modo che a loro volta imparino a entrare in rapport[1] con gli altri. Qualche risata extra non ha mai fatto male allo spirito di un gruppo, anzi! Soprattutto perché all’interno del perimetro lavorativo molti – per cultura o per insicurezza – tendono a restare confinati nel proprio personaggio, mantenendo nascosti i tratti naturali e le caratteristiche legate al proprio talento. Alcuni si chiudono per difesa (magari reduci da esperienze negative) o per carattere, altri invece per soddisfare il bisogno di importanza, ergendosi su un piedistallo con un aplomb decisamente fuori contesto, senza rendersi conto che il personal branding più efficace di se stessi è quello basato sulla capacità di entrare in rapport con gli altri.

È importante che tu conosca un po’ meglio i collaboratori, anche dal punto di vista personale. Chi sono veramente, qual è la loro storia di vita, cos’hanno fatto prima di lavorare con te, se hanno famiglia, figli… Ciò non significa diventare tutti dei grandi «amiconi», niente di più sbagliato. Anzi, nei rari casi in cui diventerai amico di un collaboratore, fai attenzione a gestire tutto per il meglio, altrimenti rischi di fare solo grandi danni. Ciò che intendo è di entrare in rapporto personale, possibilmente anche in contesti esterni all’ambiente di lavoro. In questo modo capirai veramente chi hai di fronte. E questo ti aiuterà a dare fiducia, a trovare le leve giuste per far crescere quella persona al meglio’.

Tratto da: Daniela Bonetti, 2019, Team leader – Mentalità, caratteristiche e strumenti per far crescere reti di persone collaborative, motivate ed efficienti, Mondadori, Milano, pp.119-121, traduttore Erica Magnaghi.


[1] Il rapport è qualcosa che avviene prima di cominciare a parlare, a livello inconscio. Quando ti trovi a tuo agio proprio con quella persona, le componenti di questa magia sono date appunto da alcune “similitudini” che hanno a che vedere con la fisiologia

Possiamo fare tutto? NO

Riusciamo ad accettare il fatto che non possiamo fare tutto? Il nostro tempo è come un magazzino: limitato.
Riusciamo a difenderci dagli imprevisti e dalle mille richieste?

Stabiliamo un ordine di priorità e prima di dire di sì analizziamo le conseguenze del nuovo incarico, rammentiamo tutte le attività che non saremo in grado di eseguire e/o gli obiettivi che raggiungeremo in ritardo.

Un sì detto si trasforma comunque in un no a qualche cos’altro.

Tutti noi sappiamo dare priorità… abbiamo anche il coraggio di decidere cosa non fare?

Forse è il momento di imparare dai bambini che sanno dire istintivamente ‘no’… da adulti, invece, diciamo ‘sì’ anche quando non possiamo farcela (e possiamo anche ‘bruciarci per generosità’) e cerchiamo di fare cose ‘in contemporanea’.

Proponiamo una autovalutazione, strutturato in 10 domande alle quali rispondere con Vero o Falso.

Sai dire no? V o F
1. Se mi accorgo che sono in ritardo su una scadenza, avviso
immediatamente l’interlocutore del problema
 
2. Sono sempre disponibile a dare una mano ai colleghi  
3. Lavoro troppo, sto sacrificando il mio tempo libero  
4. Quando si presenta un problema o un imprevisto è meglio
affrontarlo subito per non pensarci più
 
5. Mi sento in ‘trincea’: devo continuamente dare risposte e
dedicare tempo a troppi interlocutori subendo continue
interruzioni
 
6. Spesso svolgo compiti che dovrebbero essere effettuati da altri  
7. Se concordo che una cosa la faccio entro una certa scadenza
rispetto l’impegno con precisione
 
8. Dico sempre di sì al mio capo  
9. Nello scegliere cosa fare e cosa non fare nella giornata valuto
l’importanza dell’attività rispetto ai miei obiettivi
 
10. Vorrei lavorare meno ore ma non ci riesco. Ci sono sempre
troppe cose da fare ed imprevisti
 
Affermazione Vero Falso
1 0 punti 1 punto
2 1 punto 0 punti
3 1 punto 0 punti
4 1 punto 0 punti
5 1 punto 0 punti
6 1 punto 0 punti
7 0 punti 1 punto
8 1 punto 0 punti
9 0 punti 1 punto
10 1 punto 0 punti

Interpretazione.

Il punteggio può variare:
da un minimo di 0 punti: saper dire di no non è per lei un problema
ad un massimo di 10 punti: forse è il caso di aumentare la frequenza dei suoi no rispetto ai sì

Come motivare il nostro no?

  • Dico no alla richiesta ma ti aiuto a trovare una soluzione alternativa (es. Io non posso venire al convegno… chi è la persona che secondo te ha le competenze per presentare il lavoro?).
  • Dico no alla richiesta, ma dico sì alla persona (es. Non averne a male; questo mese sono assorbito dalla nuova riorganizzazione aziendale e non posso quindi far parte di questo progetto).
  • Dici no ora, sì più tardi (es. Riesco a tradurti la presentazione per lunedì prossimo – non per questo pomeriggio come mi hai chiesto).
  • Accetto i no degli altri (es. Ti capisco, anch’io sono molto indaffarato in questo periodo).

Cosa è meglio: un no detto chiaramente o una promessa non mantenuta?

E se rientriamo nel gruppo delle persone che dicono sempre sì, possiamo iniziare con un esercizio di consapevolezza elencando le cinque situazioni più frequenti in cui ci capita di dire sì quando invece sarebbe opportuno dire no.

Dopo averle scritte, ci impegniamo ad osservare quante volte riusciamo a dire no.

È questione di ALLENAMENTO e di riuscire ad EDUCARE gli interlocutori al rispetto del nostro tempo.

‘Non per bontà, per efficacia’.

Tratto da

Tratto da: Gianluca Gambirasio (2015). Gestire meglio il tempo, Milano: Franco Angeli, p.61-64.

Il metodo antistronzi

Ci è mai successo di leggere un libro e negli anni rileggerlo?
E che il libro sia e scientifico, e divertente?

Robert Sutton, professore di ingegneria gestionale all’Università di Stanford e consulente aziendale, nel 2007 ha pubblicato il libro, tradotto poi in italiano, dal titolo The no asshole rule. Building a civilized workplace and surviving one that isn’t. (Il metodo antistronzi. Come creare un ambiente di lavoro più civile e produttivo o sopravvivere se il tuo non lo è).

Il libro nasce dopo che la rivista ‘Harvard Business Review’, nel 2004, pubblicò le venti idee per l’economia del futuro tra cui quella di Sutton dove la parola ‘stronzo’ venne ripetuta per ben otto volte.

Perché siamo onesti… quale altra parola meglio rappresenta ed esprime il comportamento di prepotenti, maleducati, cafoni, bastardi, aguzzini, tiranni, maniaci oppressivi, despoti, sleali, egomaniaci?

Sarebbe bello avere un ‘rilevatore di stronzaggine’ sia per capire le persone attorno a noi sia per capire quando ci stiamo comportando in modo aggressivo o insensibile. Una specie di rilevatore che misura il comportamento di una persona sul momento.Questo rilevatore non è in vendita.
La buona notizia è che Sutton ha preparato un test individuale che ci aiuta a capire se siamo degli stronzi patentati. Prende spunto dalle ricerche ed è ‘utile’ per un controllo individuale.

Siamo abbastanza coraggiosi per non imbrogliare noi stessi e pronti a calcolare il nostro punteggio di stronzaggine?

TEST: SEI UNO STRONZO PATENTATO?

Segnali che lo ‘stronzo interno’ sta tirando fuori la testa

Istruzioni: Indicate con vero (V) o falso (F) se le frasi seguenti descrivono in modo corretto o meno le vostre sensazioni e le interazioni tra voi e i vostri colleghi.

Quali sono le mie reazioni istintive di fronte agli altri?

1. Mi sento circondato da idioti e incompetenti e non posso fare a meno di farlo notare loro di tanto in tanto.

2. Ero una persona tranquilla prima di cominciare a lavorare con questo branco di coglioni.

3. Non mi fido delle persone che mi circondano, e loro non si fidano di me.

4. Considero i colleghi come miei concorrenti.

5. Credo che il modo migliore di ‘salire in cima’ sia buttare giù qualcun altro.

6. Godo segretamente quando qualcun altro soffre o è in imbarazzo.

7. Spesso sono geloso dei miei colleghi e ho difficoltà a essere sinceramente contento per loro quando hanno successo.

8. Ho un gruppo ristretto di amici fidati e una lunga lista di nemici, e sono ugualmente fiero di entrambi.

Come tratto gli altri?

9. A volte non riesco a trattenere il mio disprezzo per tutti gli sfigati e i coglioni che lavorano nel mio ufficio.

10. Trovo utile guardare di traverso, insultare e a volte anche urlare in faccia agli idioti che lavorano con me. Altrimenti non impareranno mai.

11. Mi prendo tutto il merito per insultati della mia squadra, e perché non dovrei? Non andrebbero da nessuna parte senza di me.

12. Durante le riunioni mi piace indirizzare commenti ‘innocenti’ che non hanno altro scopo se non umiliare e gettare nello sconforto i destinatari.

13. Sono sempre pronto a sottolineare gli errori altrui.

14. Io non sbaglio mai. Quando qualcosa va male, la colpa è sempre di qualche idiota.

15. Interrompo sempre gli altri perché quello che devo dire io è più importante.

16. Lecco sempre il culo al mio capo e alle persone importanti e mi aspetto lo stesso trattamento dai miei sottoposti.

17. A volte le mie battute e le mie prese in giro sono un po’ pesanti, ma bisogna ammettere che sono divertenti.

18. Amo la mia squadra e loro amano me, ma sono sempre in guerra con il resto dell’azienda. Tratto tutti di merda perché chi non fa parte della mia squadra o non conta niente o è un nemico.

Come reagiscono gli altri nei miei confronti?

19. Quando parlano con me, le persone evitano di guardarmi negli occhi e si innervosiscono.

20. Ho la sensazione che la gente stia sempre molto attenta a quello che dice in mia presenza.

21. Le mie e-mail provocano sempre reazioni ostili, che spesso sfociano in battaglie di insulti.

22. Gli altri esitano a darmi informazioni personali.

23. Gli altri non sembrano divertirsi in mia presenza.

24. Quando arrivo io, le persone reagiscono sempre dicendo che devono andare via.

Come calcolare il punteggio.

Sommare il numero delle risposte positive (sommare V).
Il test non ha valore scientifico ma secondo Sutton:

da 0 a 5: non sembrate avere le credenziali di uno stronzo patentato/a meno che non vi stiate prendendo in giro da soli.

da 5 a 15: siete degli stronzi patentati borderline: forse è arrivato il momento di cambiare atteggiamento prima che sia troppo tardi.

da 15 in su: avete tutta l’aria di stronzi fatti e finiti. Fatevi aiutare immediatamente. Ma per favore non rivolgetevi a me, perché non voglio conoscervi (nota di Sutton).

Tratto da

Robert I. Sutton (2007). Il metodo antistronzi. Come creare un ambiente di lavoro più civile e produttivo o sopravvivere se il tuo non lo è. Roma, Elliot. 

Categorie: self management, pratica motivazionale

Grinta: 10.000 ore di pratica

Spesso sentiamo parlare di TALENTO (ne abbiamo parlato con La motivazione, per un individuo, è l’energia che lo anima).
Sempre più è anche sottolineata l’importanza di ‘superare la fallacia del talento’.

Scomodiamo Edison al quale viene accreditata la seguente citazione: ‘Genius is one percent inspiration, ninety-nine percent perspiration. Accordingly, a ‘genius’ is often merely a talented person who has done all of his or her homework’ (Il genio è 1% ispirazione e 99% sudore. Un genio è spesso semplicemente una persona di talento che ha svolto tutti i compiti a casa).

Varie ricerche confermano, in modo meno poetico, questa citazione definendo, addirittura, un numero di ore di ‘compiti a casa’: 10.000 ore di pratica. Con 10.000 ore di pratica possiamo diventare un esperto, un professionista, un campione.

La prima volta che venne presentato questo dato risale ad uno studio del 1993, professor Anders Ericsson dell’Università del Colorado. ‘Lo studioso esaminò le abitudini di un gruppo di violinisti. Tutti avevano cominciato a suonare il violino a 5 anni, tutti sembravano piuttosto portati per lo strumento e tutti, da bambini, vi si dedicavano approssimativamente per lo stesso tempo. Ma a 8 anni di età, il tempo dedicato a esercitarsi variava.  A 20 anni, i violinisti più affermati avevano suonato per una media di 10 mila ore ciascuno, mentre quelli meno bravi non superavano le 4 mila ore. Se bastasse il talento puro, osservava lo studio, non sarebbe stato impossibile vedere emergere un violinista dopo 5 mila ore di musica. Invece la costante era che il successo arrivava intorno a quota 10 mila. Ergo, concludeva la ricerca, è quello il numero magico, la cifra del successo, molto più del talento’ (Franceschini).

Possiamo quindi affermare che se conosco e riconosco il mio talento, e dedico il mio tempo e il mio sudore, sarò eccellente? È quello che la studiosa Angela Duckworth afferma con il termine Grinta, nell’accezione di tenacia, perseveranza, determinazione.

Il segreto per raggiungere risultati notevoli è la grinta intesa come miscela di passione e costanza (non talento).

La studiosa, inoltre, sottolinea che anche il linguaggio che noi usiamo verso gli altri può incoraggiare e promuovere la grinta e quindi la mentalità di crescita degli altri. Consiglia (a genitori, dirigenti, insegnanti o chiunque abbia responsabilità di guida) di osservare per qualche giorno il proprio linguaggio, ascoltando il tipo di convinzione che quelle parole possono incoraggiare.

Scoraggia la grinta e
la mentalità di crescita
Promuove la grinta e
la mentalità di crescita
Bravo! Sei un talento nato. Bravo! Sei uno che impara
Bene, almeno ci hai provato! È andata male. Vediamo cosa hai fatto e cosa avrebbe potuto funzionare meglio.
Ottimo lavoro! Come sei bravo! Ottimo lavoro! C’è qualcosa che avresti potuto fare anche meglio?
Questa è difficile. Non te la prendere se non ti riesce. Questa è difficile. Non te la prendere se ancora non ti riesce.
Forse questo non è il tuo forte. Non te la prendere, hai altre risorse. Ho grandi aspettative. Ci tengo perché so che insieme ci possiamo arrivare.

Siamo pronti ad ascoltare il nostro linguaggio che usiamo verso gli altri?

Tratto da

Angela Duckworth (2017). Grinta. IL potere della passione e della perseveranza.
Enrico Franceschini (2014). La regola del successo 10.000 ore di pratica e sei bravo in tutto.