Non c’è bisogno di urlare

“Come si potrebbe sospettare, le dimensioni di questa palestra mentale (cervello, ndr) influenzano direttamente la creatività, e per un semplice motivo: tutto ciò che influisce sul suo volume influisce anche sul numero di variabili che può contenere.

Quali tipi di esperienze influenzano le dimensioni della palestra? Probabilmente conoscete già la risposta, visto il nostro lungo allenamento con questo concetto: la perdita di controllo – lo stress negativo – influisce sulla capacità della memoria di lavoro momento per momento.

Ci sono molti modi per dimostrarlo. Una serie di esperimenti compiuti nel mondo reale ha studiato cosa succede alla memoria di lavoro quando una persona diventa verbalmente aggressiva. Aggressività verbale è l’eufemismo scientifico per «urlare», un comportamento che molti subordinati subiscono da capi irascibili.

Per amor di discussione, supponiamo di essere il capo irascibile. Dopo aver riscontrato un errore, decidiamo di mollare la nostra frizione emotiva e iniziamo a sbraitare contro il dipendente responsabile. Cosa succede al dipendente? Le nostre azioni riducono immediatamente la sua memoria di lavoro di ben il 52 per cento, alterando profondamente la capacità di carico del suo buffer di memoria. Questa riduzione può influire sulla sua produzione creativa praticamente in tutti i modi in cui è possibile misurarla.

Ulteriori ricerche forniscono un indizio sul perché di questa contrazione della memoria. Il suggerimento proviene da un luogo inaspettato: le forze dell’ordine e le testimonianze oculari.

I professionisti della salute mentale sanno che il trauma e la perdita di memoria si influenzano reciprocamente. Quando a una persona succede qualcosa di brutto – ad esempio un’aggressione – di solito subisce un certo livello di amnesia, soprattutto per gli eventi che si verificano nel periodo immediatamente successivo all’aggressione. Questo può influire direttamente sulla testimonianza oculare.

Di solito, però, l’amnesia non è totale. Se il trauma coinvolge un’arma di qualche tipo, come nel caso di un’aggressione con una pistola, le cose cambiano notevolmente. I sistemi di memoria del cervello premono il pulsante di registrazione per ricordare ogni dettaglio possibile sull’arma da fuoco. Si verifica anche in questo caso una grave contrazione della memoria, che sarebbe però più opportuno definire come uno spostamento, un’iper-riallocazione delle risorse. Questa concentrazione anormale a discapito di quasi tutto il resto si chiama focus sull’arma. Il fenomeno si ricollega direttamente alla questione delle urla. Se diventate verbalmente aggressivi nei confronti di qualcuno, avete essenzialmente trasformato la vostra bocca in un’arma. Il radar di localizzazione del vostro subordinato si concentrerà automaticamente sulla fonte della minaccia, cioè su di voi, mentre gli altri sistemi di memoria si indeboliranno. Invece di concentrarsi su quella che potrebbe essere una preoccupazione legittima, cioè l’errore, il subordinato si concentra sull’opposto, la vostra bocca arrabbiata.

Alcuni manager ignorano questo avvertimento, pensando che l’aggressione verbale aumenti la produttività innovativa. Non è così. Urlare non aumenta la creatività più di quanto brandire una pistola calmi le persone.”

Tratto da: John Medina, 2022, Il cervello al lavoro. Istruzioni per pensare meglio in ufficio e a casa. Torino: Bollati Boringhieri, pp. 139-140, traduttore Giuliana Olivero.

La tecnica dell’Appreciative Inquiry

Quale tecnica si può usare per accelerare un cambiamento? Per rileggere le situazioni che abbiamo vissuto e tenerne gli aspetti positivi? Sappiamo che possiamo allenare il nostro cervello, ora scopriamo, rileggendo un articolo scritto da Gianluca Braga, Strumenti e metodi per una valutazione ‘positiva’: l’Appreciative Inquiry, cosa possiamo fare in team o in azienda (e anche in associazione, in casa…)

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Francisco Cornejo è un bancario con un’infinita passione per il calcio. Gira per campetti di periferia in cerca di nuovi talenti da segnalare alle squadre di Buenos Aires. Quel giorno, al campetto “Las Malvinas”, arriva un bambino di 9 anni, piccolo e con una folta capigliatura nera, che chiamano “el pelusa”. Appena Diego, il “pelusa”, inizia a palleggiare col suo piede sinistro, tutti gli altri ragazzi si fermano a guardare.

Francisco lo osserva con attenzione. Gli chiede di palleggiare anche con l’altro piede. Il risultato non dà la stessa “magia”. Si avvicina e dà al piccolo Diego Armando Maradona il suo primo e più importante consiglio tecnico: “d’ora in avanti, allenerai sempre, con tutto l’impegno che puoi, il tuo piede sinistro”.

Il 22 giugno 1986 a Città del Messico, nella partita dei quarti di finale dei campionati del mondo con l’Inghilterra, Maradona segna quello che per molti è da considerare il più bel gol della storia del calcio. Con 11 tocchi consecutivi del suo piede sinistro… (adattato da A. Chelo, 2008)

[…] Come allenare il piede sinistro in azienda?

Cos’è l’Appreciative Inquiry?

L’Appreciative Inquiry (AI, da qui in avanti) è un costrutto sviluppato negli anni ’80 da David Cooperrider e Suresh Srivastva, da cui derivano pratiche utilizzate originariamente in contesti organizzativi, ed è sostanzialmente volto a migliorare tali sistemi. Queste pratiche sono però state adattate all’ambito valutativo, in particolare con i lavori di Hallie Preskill, divenuta oltretutto nel 2007 Presidente dell’American Evaluation Association.

L’AI si basa su un semplice assunto di fondo: le persone – e le organizzazioni che esse compongono – che si concentrano sulla “metà vuota” del bicchiere d’acqua, i “pessimisti”, adotteranno un approccio ai problemi “classico”: si focalizzeranno su di essi per individuarne le cause e ipotizzare di conseguenza le relative azioni di miglioramento. Secondo l’AI, però, è verosimile che coloro che si concentrano sulle difficoltà, finiranno con il rimanere vincolati ad esse, poiché tenderanno ad insistere su debolezze e difficoltà proprie del sistema e delle persone che lo compongono (il piede destro). Chi invece sviluppa un approccio più ottimista e preferisce soffermarsi sulla “metà piena” del bicchiere, si concentrerà maggiormente sugli aspetti positivi e sarà per lui più semplice individuare nuove possibilità e validi sviluppi positivi, facendo leva invece sui talenti e sulle potenzialità delle persone (il piede sinistro).

A partire da questo semplice assunto, l’AI ha sviluppato delle prassi metodologiche che facilitano una lettura delle potenzialità di un sistema di persone, a partire dalle quali pensare ai futuri obiettivi.

Strettamente connessi all’idea-base, l’AI fa riferimento ad altri concetti fondanti molto coerenti con un approccio positivo:

  • In qualsiasi persona o gruppo, si può sempre rintracciare qualcosa di positivo, che può essere utilizzato come esempio concreto e motore per il miglioramento. È però necessario concentrare l’attenzione su di esso, senza farsi sviare dalle criticità che spesso sono più evidenti.
  • Il fatto stesso di porre (e porsi) delle domande consente di sviluppare maggiore consapevolezza ed è già una forma di cambiamento che viene attuata nel momento stesso dell’indagine.
  • Le parole ci aiutano a costruire le storie che danno significato e valore ai fatti che viviamo; “la bellezza (o il suo contrario) è negli occhi di chi guarda”. In altri termini, siamo noi a costruire la nostra realtà e lo facciamo attraverso il “racconto” di ciò che accade; intervenire su questo racconto significa modificare la (nostra) realtà.

[…]

Come “si fa” l’’Appreciative Inquiry?

Il modello più diffuso, sviluppato dagli autori citati prevede quattro passaggi (il “modello 4- i”). Di seguito viene riportato con maggiore dettaglio il primo di questi passaggi, poiché più associabile alle pratiche valutative.

Inquiry. È la fase di ricerca vera e propria, che viene condotta prevalentemente attraverso interviste alle persone coinvolte nei processi oggetto di indagine. A differenza delle modalità utilizzate tradizionalmente, però, l’AI propone di indagare specificamente le potenzialità e gli aspetti positivi dell’oggetto di ricerca (la persona stessa, l’organizzazione in cui è inserita, il programma che sta realizzando…). L’obiettivo è quello di far emergere (alla consapevolezza degli attori protagonisti) il meglio di ciò che è presente in loro e nel sistema cui appartengono.

Gli “ambiti” all’interno dei quali queste “eccellenze” vengono ricercate, sono tre:

  • Le esperienze: quelle situazioni, “comportamenti”, collocabili in un preciso momento e luogo, che costituiscono il maggior livello di successo e soddisfazione per le persone coinvolte. Tali eccellenze devono essere convenientemente precisate in termini di tempi e luoghi; di persone presenti e coinvolte, direttamente e non; di pensieri e fatti accaduti. Questo per rendere tali esperienze comunicabili e condivisibili e per facilitare il riconoscimento delle cause che hanno portato a tali successi.
  • La cultura di appartenenza: l’insieme dei valori che guidano le azioni delle persone e che – in quanto tali – costituiscono un riferimento prezioso da rendere evidente e manifesto in quanto prodotto dell’esperienza maturata.
  • Le aspirazioni individuali e/o il mandato dell’organizzazione: in altri termini, i sogni, i desideri e tutto ciò che costituisce un valore per le persone e che risulta di fondamentale importanza in termini di motivazioni e spinta al raggiungimento degli obiettivi professionali e non.

Al termine di questa prima fase, se correttamente condotta, risulta chiaro, esplicito e condiviso il potenziale delle persone coinvolte, la loro competenza, che non è soltanto astratta, ma si è già evidenziata in episodi concreti; sarà anche più facilmente intuibile la direzione verso la quale le persone intendono dirigersi e quali valori guidano questo percorso.

Le fasi successive del modello dell’AI sono meno legate al processo valutativo inteso in senso stretto. Vanno invece a guidare una sorta di problem solving prevalentemente organizzativo (anche se facilmente riconducibile a processi individuali), volto a sviluppare azioni di miglioramento, in una logica di applicazione degli esiti valutativi.

Imagine: andare oltre lo status quo, rappresentando situazioni future che siano vitali, concrete e – per qualche verso – migliori. Non differisce di molto dal terzo ambito della fase di Inquiry, salvo che questo è – all’interno delle organizzazioni – frutto di un processo negoziale e di co-costruzione degli obiettivi.

Innovate: rivedere gli elementi dell’organizzazione (valori, struttura, persone, procedure, risorse…) che devono essere modificati per poter raggiungere gli obiettivi condivisi nel passaggio precedente. In altri termini, si tratta di “ingegnerizzare” il processo di cambiamento auspicato all’interno dei meccanismi del contesto che deve mutare.

Implement: (ovviamente) si tratta infine di realizzare quanto ipotizzato, alla luce della fase di Inquiry. L’indicazione più rilevante in questo caso è quella di prevedere comunque una sorta di monitoraggio continuo dell’andamento dell’organizzazione, attraverso gli strumenti e le metodologie dell’AI. Instaurando così una sorta di circolo virtuoso che consenta di rileggere periodicamente il proprio potenziale attuato e le proprie spinte motivazionali e mettere queste al servizio di un processo di miglioramento continuo, anche se non prederminato.

Comunque consapevoli dell’orribile difficoltà nel convincere le persone a smettere di lamentarsi e a guardare ciò che di buono c’è in loro, nel mondo attorno a loro e… nei colleghi.

Bibliografia

Chelo, A. (2008). Il manager mancino. Milano: Sperling & Kupfer.

Cooperrider, D., Whitney, D. (2005). Appreciative Inquiry: A positive revolution in change. Berrett-Koehler Publishers.

Cooperrider, D. L., Whitney, D., Stavros, J. M. (2008). Appreciative Inquiry Handbook (2nd ed.). Brunswick, OH: Crown Custom Publishing, Inc.

Montano, A. (2007). Mindfulness. Guida alla meditazione di consapevolezza. Ecomind.

Preskill, H., Catsambas, T. T. (2006). Reframing evaluation through Appreciative Inquiry. Sage Publications, Inc.

Stiamo andando ad Abilene?

Durante un caldo pomeriggio in una piccola cittadina del Texas una famiglia sta giocando a carte quando il capofamiglia suggerisce di recarsi per cena ad Abilene, cittadina che dista circa 50 miglia. La figlia dice “Sembra una grande idea!”. La moglie, pur avendo qualche riserva per il lungo viaggio e il caldo, pensa che sia più importante mantenere armonia nel gruppo e dice: “Mi sembra ottimo! Spero solo che tua madre voglia venire”. La suocera dice: “Certamente vengo volentieri”.
Il viaggio è lungo, caldo e stancante. Quando arrivano al ristorante il cibo è pessimo. Tornati a casa dopo 4 ore sono “distrutti”. Uno di loro dichiara “E’ stato un gran bel viaggio, non è vero?”. La suocera risponde dicendo che in verità lei sarebbe stata volentieri a casa ma visto l’entusiasmo aveva accettato per non rovinare l’armonia. La figlia a quel punto esclama: “Nemmeno io volevo andare ma ho detto di sì perché tutti voi volevate andare!”. La moglie: “Io sono venuta per far felici voi. Solo un folle sarebbe uscito con questo caldo”. Il marito infine disse che aveva proposto il viaggio solo perché pensava che gli altri si stessero annoiando…

Leggiamo questa storia considerando la leadership orizzontale e la gestione dell’intelligenza collettiva. Cosa può evidenziare? Che l’essere umano tende ad:

In altre parole, ci si lascia trascinare da persone assertive e dominanti. Gli studi (i primi, 1997, sono firmati da Paulhus e Morgan; si veda anche Cameron e Kilduff, 2009) evidenziano che percepiamo le persone loquaci come più intelligenti di quelle silenziose.

Abbiamo anche la tendenza a considerare i loquaci come leader naturali. Più un individuo parla, più gli altri membri del gruppo concentrano l’attenzione su di lui, più gli attribuiscono autorevolezza e autorità man mano che la discussione prosegue. Giova anche parlare velocemente: giudichiamo costoro più capaci e piacevoli rispetto a chi parla lentamente. La ricerca non conferma il legame tra oratoria fluente e maggior acume.

Uno studio in ambito universitario, ad esempio, ha mostrato che gli studenti che parlavano per primi e più di frequente ottenevano in genere punteggi più alti, anche se le loro risposte non si erano rivelate migliori di quelle degli studenti meno loquaci.

Come possiamo non cadere in questa trappola? Come evitare di andare ad Abilene?
Il paradosso di Abilene mostra la nostra tendenza a seguire coloro che prendono l’iniziativa, quale essa sia. Spesso non sappiamo distinguere tra buone capacità di presentazione e vera dote di leadership. In merito un noto investitore, afferma: “È fin troppo facile confondere la parlantina con il talento. Chi si presenta come buon comunicatore, cordiale, vede premiate queste caratteristiche. Perché mai? Sono tratti positivi, certo, ma diamo eccessiva importanza alla presentazione e non sufficiente rilievo al contenuto e allo spirito critico”.

Quando la prossima volta lavoriamo con il nostro team, con i nostri collaboratori… possiamo usare una frase con simpatia e chiederci ‘Stiamo salendo sull’autobus per Abilene?’ affinché anche il collaboratore, collega, leader silente (pacato, umile, modesto, riservato, timido, gentile, mite, schivo, sobrio…) possa dire la sua e far sì che venga presa in considerazione.

Tratto da:

Harvey, Jerry B. (1988), The Abilene paradox and other meditations on management, Lexington

Cain, Susan (2012). The power of introverts in a world that can’t stop talking.

Nello sport si festeggiano i successi, perché in azienda si cercano i colpevoli?

Giovedì 4 giugno Jacopo Pasetti, un ‘diversamente ingegnere’ che ‘ama le imperfezioni delle aziende e la non linearità delle persone’ con la passione della pallanuoto, scrive un articolo su ‘L’altra metà del Sole – Alley Oop’.

Si può leggere questo articolo direttamente sul Sole 24 ore o qui sotto.

Al termine possiamo chiederci: a chi dedico il mio prossimo feedback positivo? Quando?

Nello sport si festeggiano i successi, perché in azienda si cercano i colpevoli?

Pallanuoto, campionato 2013. Dopo una stagione di serie A2 sempre al comando, la mia Como Nuoto sta per tornare in A1. Abbiamo vinto il primo play-off e stiamo giocandoci la finale. Sono a fine carriera e questa sarà per me l’ultima partita. Questa finale è la chiusura di un percorso partito dalla serie A1, che sta riportando la mia squadra del cuore là dove mi aveva accolto da giovane all’inizio del mio viaggio. Sono il più vecchio del gruppo, ma resto in campo ancora tanti minuti.

Sentire, ad ogni giocata riuscita, il sostegno dei miei compagni e l’urlo del pubblico mi toglie metà della sensazione di fatica. Vivo questi piccoli gesti di celebrazione con la carica di un ragazzino alla prima partita; mi tengono talmente in gioco che sul pari, ad un minuto dalla fine, il rigore della vittoria lo conquisto io. Non sarà mio il goal, ma poco cambia, l’importante è che abbiamo vinto. Parte la festa!

Soltanto nei giorni successivi ripensando alla partita mi sono accorto di quanti piccoli sbagli i miei compagni non avessero sottolineato. Ricordo di come fosse stato importante il sentire lo slancio portato dalle azioni riuscite e festeggiate da tutti con un gesto di gioia. Vincere aiuta a vincere, segnare aiuta a segnare ed evidenziare i piccoli successi dei compagni aiuta tutti nella miglior gestione della partita.

Questo nello sport è limpido, cristallino. Il successo va celebrato, la vittoria va goduta e la bella azione o il buon gesto tecnico/atletico vanno accompagnati dalla gratifica dei compagni e dai cori di centinaia di tifosi.

Nel contesto lavorativo l’importanza del feedback positivo e della celebrazione del successo è sicuramente nota a livello teorico, ma non sempre messa in pratica e troppo spesso poco vissuta sul piano emotivo. La ricerca del colpevole e l’approccio punitivo fanno parte del modo di agire di molti manager (per fortuna non di tutti) che spesso vengono ritenuti efficaci proprio perché sanno sottolineare l’errore e intervenire duramente sullo sfortunato che ha commesso lo sbaglio.

Nella nostra cultura lavorativa, l’attenzione al fallimento (purtroppo non orientata alla comprensione dell’errore e all’apprendimento, ma alla punizione di chi ha sbagliato) è molto più frequente dell’elogio del successo e del buon lavoro. Pensiamo ad esempio che la parola critica, facoltà o conoscenza che rende capaci di valutare l’operato di altre persone e il risultato della loro attività distinguendo il ben fatto da ciò che potrebbe esser migliorato, ha nel linguaggio lavorativo una accezione negativa. Quando qualcuno di competente ci muove una critica siamo abituati ad un giudizio ostile, raramente pensiamo subito ad una valutazione positiva. Per indorare la pillola qualcuno abbina alla parola “critica” il termine “costruttiva”, questo rafforza l’idea che dando la propria opinione agli altri ben di rado la si dia per esaltarne le attività svolte.

La metafora sportiva deve portarci a visualizzare le modalità festose con cui compagni e tifosi reagiscono alle belle giocate dei campioni, deve ricordarci che spesso il migliore amico del successo che si ha in una competizione è proprio la convinzione che si acquista azione dopo azione e nulla sostiene più che il sentirsi caricati dagli altri.

In ogni ambito diventa fondamentale, per sé stessi e la propria squadra, festeggiare l’obiettivo raggiunto o i passaggi chiave di un percorso. Quando si celebra il risultato proprio nel momento della vittoria si provano emozioni positive legando il piacere del target conseguito al processo che ha permesso di ottenerlo.

Il valore di questo aspetto nel lungo periodo è più forte e permanente di qualunque premio materiale e genera voglia di completare nuovamente un progetto o raggiungere un altro obiettivo per riprovare le stesse emozioni. Le endorfine rilasciate per un piccolo o grande successo che viene evidenziato e festeggiato generano felicità e voglia di ripetersi. Negare la celebrazione non solo fa perdere la possibilità di provare sensazioni positive, ma abbassa lo stimolo a cercarle nuovamente.

Nel lavoro, come nella vita di tutti giorni, il cervello di ognuno di noi abbina la sensazione positiva alla consapevolezza che l’impegno profuso stia portando a risultati soddisfacenti.

Un buon manager conosce le proprie persone e sa leggere piccoli e grandi risultati ottenuti, sottolineandoli e celebrandoli a dovere. La convinzione con cui questo gesto viene fatto è fondamentale per l’ottenimento del risultato motivazionale. Celebrare un successo, proprio o del team, senza esserne convinti genera sicuramente l’effetto opposto a quello desiderato.

E poi diciamocelo, quanto è stato bello veder tagliare i capelli a Camoranesi dopo la vittoria del mondiale di calcio nel 2006? E nella mia pallanuoto, quanto è affascinante ribaltare in acqua la porta dove hai segnato l’ultimo goal per sedersi sopra con tutta la squadra festeggiando col pubblico? La voglia di vincere ancora e ancora parte sicuramente da lì!

Covid 19: è arrivato il momento di essere Romolo?

Qualche giorno fa ho letto un articolo sul Sole24 ore di Luca Villani scritto il 22 maggio 2019, dal titolo: Romolo e Remo, due differenti stili di leadership che oggi ha una sfumatura interessante.

L’articolo, sotto riportato, ci fa riflettere su due modelli di leadership: quello dinamico, visionario, coraggioso e anche egocentrico e tirannico (Remo, leader ‘naturale’) e quello inclusivo, collaborativo e più lento (Romolo). Noi conosciamo sia Remo sia Romolo; ora è arrivato il momento di trasformarci e diventare Romolo, di creare quel noi e imparare a rinunciare, a perdere, a organizzare, a evolvere in un ‘noi’ più complesso e inclusivo.

Buona lettura e buona visione del film ‘Il primo re.

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«Il primo re» è un film italiano molto originale: un mini-kolossal che ha fatto e farà discutere per numerosi motivi. In primo luogo per l’argomento, il mito di Romolo e Remo, un tema impresso nella nostra memoria scolastica e al tempo stesso poco conosciuto. Poi per la realizzazione – insolita per un film italiano – estremamente cruda e realistica, ispirata a pellicole come Apocalypto e The Revenant. Infine per la lingua: un «proto-latino» assai credibile, messo a punto da un gruppo di ricercatori dell’Università la Sapienza di Roma.

Il leader naturale

Ma c’è un’altra chiave di lettura che merita di essere considerata: quella legata ai modelli di leadership. Per gran parte del film il protagonista è Remo: non solo perché Romolo è ferito quasi a morte, ma perché Remo è effettivamente un leader naturale. Forte fisicamente, determinato e astuto, libera se stesso, il fratello e un piccolo gruppo di compagni di sventura catturati dai nemici; assume il comando del gruppo, in virtù della sua superiorità nel combattimento; riesce a cacciare un cervo, e quindi a nutrire i suoi; in tutto questo, trasporta il fratello moribondo. Nel frattempo, però, il suo atteggiamento si fa sempre più dispotico e violento, e chi prova a sfidarlo paga con la vita. «Vi ho salvati, vi ho guidati, vi ho nutriti: sono il vostro re», dice a un certo punto, e non gli si può dare torto. Il suo progetto, insomma, funziona: a tenere unita la squadra è un perfetto mix di risultati, carisma, terrore.

Entra in scena il “noi”

A un certo punto del loro viaggio, i protagonisti conquistano un villaggio sterminandone gli uomini e assumendone senza tanti complimenti il controllo davanti a una platea di vecchi, donne e fanciulli. Fin qui, siamo all’interno delle logiche – pur spietate – del mercato o, fuor di metafora, della sopravvivenza. Ma quando Remo uccide – in preda a uno scatto d’ira – l’anziano e inerme capo villaggio, travalica un limite etico e innesca la svolta narrativa. Mentre Remo, infatti, riparte con i suoi armati, Romolo resta al villaggio, parzialmente ristabilito, trovandosi a dover gestire una frattura apparentemente senza soluzione. «Seppelliamolo insieme», dice allora. Due parole con le quali emerge come nuovo leader, di una specie diversa: pio, avrebbero detto gli antichi, inclusivo diremmo noi oggi.

E non è, si badi bene, la sua una posizione nobile ma improduttiva. Al contrario: quando Remo viene assalito nuovamente dai nemici, meglio armati e organizzati, a salvarlo è proprio Romolo, spalleggiato da un esercito di ragazzini del villaggio, un esercito di popolo, arruolato non più con la forza ma in ragione di un’idea di bene comune non solo teorizzata ma praticata “insieme”, con la sepoltura dell’anziano. Walk the talk, fai quello che dici, ci insegnano oggi gli esperti di management. Il mito ci dice come andrà a finire: vinta la battaglia, il conflitto di visione fra i due fratelli esplode e ad avere la meglio è il “fragile” Romolo.

Due modelli

Insomma, siamo in presenza di due modelli di leadership ben noti: quello dinamico, visionario, coraggioso ma spesso egocentrico e tirannico; e quello inclusivo e collaborativo, magari più lento, come lenta è la guarigione di Romolo, che di fatto per gran parte del film sembra prepararsi al suo scatto finale. Due modelli che chi lavora all’interno di una qualsiasi organizzazione conosce perfettamente, avendoli visti all’opera numerose volte in tutte le varianti possibili, a volte addirittura in coabitazione (o in furiosa contrapposizione). Quale è migliore? Sarebbe facile concludere che il manager-Romolo è da preferire, non solo sul piano etico, ma perché ottiene risultati più profondi e duraturi (come fondare Roma, un brand oggi un po’ appannato ma capace di sopravvivere per quasi tremila anni). Eppure resta incontrovertibile il ruolo di Remo, senza il quale i due fratelli-soci e i loro “dipendenti” non sarebbero mai sopravvissuti alle sfide iniziali.

Il ruolo del tempo

E allora? E allora probabilmente ogni organizzazione ha bisogno di entrambi: di Remo e di Romolo. Di audacia e di strappi violenti, frutto dell’intuizione, quasi solipsistici; e di ricomposizioni più lente, profonde, plurali. Meglio ancora: la dicotomia non è solo sincronica (A oppure B), ma si fa ancora più affascinante se la leggiamo in modo diacronico (A e poi B). Perché è il tempo, come nell’ottimo film di Matteo Rovere, uno dei protagonisti di ogni storia. E allora, forse, la lezione è proprio che ogni leader deve nascere Remo, visionario, risoluto e competitivo, startupper, se vuole emergere; ma guai a lui se non impara a rinunciare, a perdere, a organizzare, a evolvere in in un “noi” più complesso e inclusivo. Pena il rischio di rimanere solo (e magari morto, metaforicamente), smarrendo l’occasione di attraversare il Tevere per fondare qualcosa di più grande.

L’impossibile, talvolta, è ciò che non abbiamo ancora provato a fare!

Dove sono le più grandi opportunità? In ciò che abbiamo sempre fatto?
Abbiamo presente la soffitta o la cantina di casa, o un magazzino? Si continua a riporre cose fino a quando sono totalmente piene, e quando vogliamo aggiungere ancora qualcosa, alla fine arriva la necessità di togliere qualcosa.
La gestione del tempo può presentare analogie alla gestione di un magazzino? Di una cantina? Di una soffitta?

Gianluca Gambirasio nel suo libro ‘Gestire meglio il tempo’, aiuta a renderci consapevoli di come gestiamo il nostro tempo e ci spinge a provare qualche cosa di diverso, qualche cosa che non abbiamo ancora provato a fare… a fare quello che fino a ieri abbiamo considerato fosse impossibile. Cosa vogliamo provare a fare? Secondo Orazio Una delle peggiori tragedie dell’umanità è quella di rimandare il momento di cominciare a vivere. Sogniamo tutti i giardini incantati al di là dell’orizzonte, invece di goderci la vista delle aiuole in fiore sotto le nostre finestre.

È arrivato il momento di goderci la vista delle aiuole in fiore sotto le nostre finestre?

 

Magazzino Tempo lavorativo
Lo spazio a disposizione è limitato: ‘x’ metri cubi 24 ore (1440 minuti) al massimo di cui 8, 10, 12 o più di lavoro
Lavorando sull’ottimizzazione della disposizione dei materiali è possibile recuperare dello spazio nel magazzino Migliorando la propria efficienza nell’eseguire le attività è possibile guadagnare del tempo da dedicare ad altre attività
Quando il magazzino è ormai colmo è ora di decidere cosa vale veramente la pena conservare e cosa al contrario va buttato via Quando il tempo a disposizione è scarso occorre definire con attenzione le priorità d’azione e decidere cosa non fare
Ogni nuovo scatolone che voglio inserire in un magazzino pieno implica toglierne uno per lasciare spazio a sufficienza Dire di sì ad una richiesta implica non riuscire a portare a termine qualche altra attività in futuro (un ‘no silenzioso’)
Per avere un magazzino in ordine e sotto controllo occorre dedicare del tempo alla sua gestione Investire del tempo per pianificare ed organizzare il lavoro consente di migliorare la propria efficacia ed efficienza lavorativa
Una cattiva gestione degli spazi rischia di farci perdere tempo e di commettere errori, conservando cose inutili e buttandone altre utili Disorganizzazione, confusione ed inefficienza lavorativa rischiano di farci lavorare subendo gli eventi e non gestendoli attivamente

MotivationMovesPeople augura un magazzino in ordine, efficiente e pianificato a tutte e a tutti!

 

Tratto da: Gianluca Gambirasio (2015). Gestire meglio il tempo, Milano: Franco Angeli, p.16

La logica vi porterà da A a B. L’immaginazione vi porterà dappertutto. (Einsetein)

Qual è il significato di questo aforisma? Emile Couè, farmacista e psicologo francesce (1857-1926) ci aiuta chiedendoci: e se proprio questa volontà, questa logica di cui siamo così fieri cedesse il passo all’immaginazione?

Supponiamo di porre sul suolo un’asse lunga dieci metri e larga venticinque centimetri: tutti noi siamo capaci di percorrerla da un capo all’altro senza mettere il piede fuori di essa. Ora supponiamo che l’asse sia posta all’altezza delle torri di una cattedrale: siamo capaci di avanzare di un solo metro? O forse fatti due passi inizieremmo a tremare e, malgrado tutti gli sforzi della volontà, cadiamo? O ci fermiamo bloccati?

Perché non cadiamo se l’asse è posta sul suolo e perché cadiamo quando è sollevata?
Forse perché nel primo caso ci immaginiamo che sia semplice percorrerla tutta, mentre nel secondo immaginiamo di non potercela fare, bloccati dalla nuova visione del vuoto?

Per quanto la nostra volontà di avanzare sia forte, se immaginiamo di non potercela fare, saremo nell’impossibilità assoluta di farlo. Se alcuni di noi sono capaci di compiere quest’azione è perché immaginano di poterla compiere.

Ci è mai successo di tentare di ricordare il nome di una persona e più tentiamo più ci sfugge fino al momento in cui, sostituendo nel nostro cervello l’idea con un’altra qualsiasi, ci si ripresenta spontaneo, senza sforzo? E quando vogliamo trattenerci dal ridere e invece il riso scoppia più violento quanto maggiori sono gli sforzi per reprimerlo?
Mai successo di seguire una dieta e davanti ad un gelato cedere? Non ho potuto trattenermi… era più forte di me (anche di fumatori che vorrebbero smettere di fumare, ma sono incapaci di questa rinuncia, malgrado la loro volontà). Lo psicoanalista Charles Baudouin definisce questo comportamento attraverso la Legge dello sforzo convertito: ‘ogni volta che immaginazione e volontà entrano in conflitto, immancabilmente l’immaginazione ha la meglio sulla volontà’. Contrariamente al senso comune, non è la volontà che mette in moto il cambiamento, ma la nostra immaginazione. E quando volontà e immaginazione sono in disaccordo dentro di noi, prevale l’immaginazione.

Noi crediamo di compiere liberamente ogni nostra azione… e se fosse la nostra immaginazione a tenere i fili del nostro comportamento?

Un esempio? Cosa diciamo ad un bambino che sta iniziando ad andare in bicicletta? Con quale visione lo aiutiamo? ‘attento che cadi’ o con ‘bravo, mantieni l’equilibrio’? Quale delle due aiuterà di più il bambino al suo successo? Il linguaggio è risultato della nostra immaginazione.

Come possiamo guidare la nostra immaginazione? Come possiamo allenare la nostra mente a immagini di successo? A pensieri che creano comportamenti di successo? A motivazioni personali, intrinseche di successo? Basta avere i pensieri o possiamo anche allenarli, come fossimo in palestra, anche per i momenti più bui?

Tutti i giorni, da quando siamo al mondo, inconsciamente rispondiamo a stimoli… ora ‘basta’ apprendere come coscientemente creare visioni positive. Basta educare la nostra mente a visioni vincenti.

Come Emile Couè diceva: per ottenere una cosa devi innanzitutto immaginarla nella tua mente per poi renderla reale. Non si tratta di volere una cosa ma di immaginarla…
“Non la volontà bensì l’immaginazione è la prima delle facoltà umane”. (Emile Coué).

 

Tratto da:
Émile Coué (ristampa 2013), Il dominio di se stessi. Macro Edizioni.

Può il nostro atteggiamento mentale (forma mentis) alterare la nostra esperienza attuale e influire sul nostro futuro?

Luca Mazzucchelli, direttore di Psicologia contemporanea, presentando il libro di Kelly McGonigal, Il lato positivo dello stress,  ci ricorda che il nostro mondo è composto dal 20% dai fatti che ci accadono, e l’80% da come ci poniamo di fronte ad essi.

Cosa significa? Che alcune convinzioni influenzano. In altre parole: un atteggiamento mentale distorce il mondo di pensare, sentire e agire. È come un filtro attraverso il quale si osserva il mondo. Non tutte le convinzioni si trasformano in atteggiamenti mentali. Gli atteggiamenti mentali sono idee fondamentali che riflettono la nostra filosofia di vita.

Cosa dice la scienza? Alcune convinzioni possono influenzare, ad esempio, la longevità. Uno studio condotto da ricercatori dell’università di Yale ha mostrato che avere una visione positiva dell’invecchiamento ci rende, in media, più longevi di quasi otto anni (si vive 7,6 anni più a lungo di quelli che hanno una visione negativa). E questo stesso atteggiamento mentale predice altre importanti conseguenze sulla salute, come:

  • chi manifesta una visione più positiva dell’invecchiamento ha un rischio di infarto inferiore all’80%;
  • influenza il recupero dopo gravi malattie e incidenti (gli adulti che associavano l’invecchiamento a stereotipi positivi come ‘diventare saggi’, ‘competenti’, si sono ripresi più rapidamente dopo un attacco di cuore rispetto a coloro che esprimevano stereotipi negativi, come ‘sentirsi inutili’, ‘bloccati nelle proprie abitudini’);
  • una visione positiva dell’invecchiamento ha predetto una ripresa fisica più rapida e più completa da una malattia o dopo un incidente debilitante.

Levy e i suoi colleghi nei diversi studi hanno misurato il ripristino di abilità oggettive, come la velocità della camminata, l’equilibrio e la capacità di svolgere le attività quotidiane. Le persone con una visione negativa dell’invecchiamento hanno maggiori probabilità di considerare le cattive condizioni di salute come un qualcosa di ineluttabile. Al contrario, le persone con un atteggiamento positivo si impegnano in comportamenti che promuovono la salute.

Cambiare idea sull’invecchiamento può favorire la manifestazione di comportamenti sani. Quando abbiamo una visione positiva dell’invecchiamento, siamo più disposti a fare cose che ci procureranno futuri benefici. Anche i ricercatori del German Centre of Gereontologu di Berlino confermano questi risultati.

Cosa indicano questi risultati? Il modo in cui pensiamo all’invecchiamento condiziona la salute e la longevità, non in ragione di un qualche potere mistico del pensiero positivo; più banalmente, influenzando i nostri obiettivi e le nostre scelte.

Questo è un esempio di un effetto dell’atteggiamento mentale. Più potente dell’effetto placebo. Altera l’esperienza attuale e influisce sul futuro.

Cosa significano per Motivation Moves People questi risultati? Il modo di pensare lo stress può condizionare la salute, la felicità, il successo. Il nostro atteggiamento mentale verso lo stress dà forma: dalle EMOZIONI che percepiamo durante una situazione stressante al MODO in cui AFFRONTIAMO gli eventi fonte di stress. E questo può DETERMINARE la possibilità di crescere sotto pressione, oppure di manifestare esaurimento e depressione. 

Vogliamo coltivare un atteggiamento mentale in relazione con lo stress che ci aiuti a prosperare? Motivation Moves People vi aspetta in aula!

 

Tratto da: Kelly McGonigal (2015). The upside of stress. Why stress is good for you, and how to get good at it. Penguin Publishing Group.

Le ultime impressioni sono spesso le più durature

A coloro che hanno studiato uno strumento musicale spesso viene ricordata la rilevanza di eseguire con la maggiore perfezione possibile la prima e l’ultima battuta di uno spartito. Qualche mese fa, ho sottolineato l’importanza di fare una buona prima impressione riferendomi in particolare alla cura dell’abbigliamento. Oggi, invece, si evidenzierà, come anche l’ultima impressione, sia in grado di mutare il giudizio complessivo di un’esperienza.

Danny (Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia nel 2002) aveva chiesto a Redelmeier di trovare un esempio medico concreto di quella che aveva deciso di chiamare “regola del picco-fine”. Nel giro di breve tempo Redelmeier si era fatto vivo con una serie di proposte, ma la scelta era caduta sulle colonscopie. Sul finire degli anni Ottanta le colonscopie erano una pratica dolorosa, oltre che inquietante. Il disagio era talmente forte che molti pazienti si rifiutavano di sottoporsi a un secondo esame. Nel 1990, però, il cancro al colon era arrivato a uccidere sessantamila persone l’anno nei soli Stati Uniti, e la maggior parte delle vittime sarebbe potuta sopravvivere se la diagnosi tumorale fosse stata effettuata a uno stadio sufficientemente precoce. Una delle principali ragioni per cui il cancro al colon veniva scoperto così tardi, però, era il fatto che quasi nessuno, trovando l’esperienza insopportabile, era disposto a fare una seconda colonscopia. E se fosse stato possibile ritoccare il ricordo della prima esperienza per far dimenticare ai pazienti quanto era stata sgradevole?

Per tentare di rispondere a quella domanda Redelmeier aveva condotto un esperimento su un gruppo di circa settecento pazienti nell’arco di un anno. A una parte dei pazienti il colonscopio veniva estratto senza cerimonie al termine dell’esame, agli altri la punta della sonda veniva lasciata nell’ampolla rettale per tre minuti in più. Non si può dire che fossero minuti piacevoli: erano soltanto meno sgradevoli del resto della procedura. Il primo gruppo aveva avuto diritto alla classica procedura brutale e senza complimenti; il secondo aveva sperimentato un finale più dolce, o comunque meno doloroso, anche se in termini puramente algebrici il volume di dolore sperimentato era maggiore: lo stesso esame invasivo più tre minuti supplementari con il colonscopio infilato nel retto.

A distanza di un’ora i ricercatori entravano nella saletta dove i pazienti si riprendevano dall’esperienza e domandavano loro di quantificare il dolore provato. Quelli ai quali era toccato il finale meno brusco ricordavano di avere sofferto di meno, ma soprattutto sembravano meglio disposti all’idea di sottoporsi a una seconda colonscopia in futuro. Degli esseri umani che mai e poi mai avrebbero immaginato di preferire una dose maggiore di sofferenza erano stati indotti con uno stratagemma a scegliere l’alternativa nel complesso più dolorosa. Come scriveva lo stesso Redelmeier, giocando sulle parole last e lasting, “le ultime impressioni sono spesso le più durature”.

 

Tratto da: Michael Lewis (2017). Un’amicizia da Nobel, Kahneman e Tversky, l’incontro che ha cambiato il nostro modo di pensare, Milano: RaffaelloCortinaEditore, pp. 246-247.

Noi diamo feedback ai nostri collaboratori o aspettiamo fine anno?

Gli esseri umani desiderano ardentemente avere un riscontro alle loro azioni.
Proviamo ad ignorare un bambino di tre anni. All’inizio cercherà di ottenere in qualche modo la nostra attenzione, ma se continueremo a trascurarlo, presto si metterà a piangere o romperà qualcosa, perché qualsiasi tipo di feedback, anche quello negativo, è meglio dell’assenza totale di feedback.

Alcuni pensano che questo principio si applichi soltanto ai bambini, ma in realtà vale ancor di più per gli adulti. Per esempio, la forma di punizione più crudele nelle prigioni è l’isolamento. La maggior parte dei carcerati infatti farebbe di tutto – anche migliorare temporaneamente la propria condotta – per evitare di trovarsi in una situazione priva di feedback.

Chi ha brevemente sperimentato l’effetto rilassante di una vasca di deprivazione sensoriale? Ci immergiamo per pochi minuti in una vasca buia, simile a un bozzolo, e fluttuiamo in acqua salata a temperatura corporea, senza luci e rumore. È un’esperienza meravigliosa se dura pochi minuti, non di più.
Una volta l’unico addetto a una di queste vasche, stizzito per un’ingiustizia subita, abbandonò improvvisamente il lavoro, lasciando un cliente chiuso nella vasca. Diverse ore dopo questi fu tratto in salvo, e dovette essere ricoverato in ospedale non a causa di lesioni fisiche, ma per la psicosi causata dalla deprivazione di feedback sensoriale. Quando vengono eliminate tutte le informazioni che provengono dall’ambiente esterno, la mente crea da sé il feedback sensoriale in forma di allucinazioni, che spesso rappresentano le sue paure più profonde. Gli incubi e il terrore che ne derivano possono portare sull’orlo della follia anche una persona normale.

I nostri collaboratori non sono diversi. Se tronchiamo il feedback, le loro menti ne elaboreranno uno personale, spesso basato sulle loro peggiori paure. Non è un caso che ‘la fiducia e la comunicazione’ rappresentino i due problemi organizzativi più frequenti nelle indagini che riguardano il personale dipendente.

Uno dei metodi di tortura più famigerati utilizzato dai militari e dagli agenti segreti consisteva nel mettere il prigioniero ribelle nella cosiddetta black room (stanza nera). Infatti, il tempo passato nella totale deprivazione sensoriale spezza l’animo dei prigionieri più velocemente dell’abuso fisico.

E in famiglia? Il marito sta facendo fretta alla moglie affinché si prepari in tempo per uscire per la serata. La donna chiede: ‘come mi sta questa giacca?’. Il marito: ‘Bene, proprio bene, andiamo!’. ‘Ecco, lo sapevo che non mi sta bene. Non trovo nient’altro da mettermi’, esclama lei.

Gli esseri umani bramano un feedback reale, e non semplici commenti condiscendenti e tranquillizzanti: fatti, non parole!

I manager che hanno i problemi maggiori nel motivare i collaboratori sono quelli che danno il feedback minore. Quando i dipendenti dicono: ‘Come stiamo andando?’, loro rispondono: ‘Beh, non so, non ho ancora dato un’occhiata ai tabulati, non saprei, ma ho la sensazione che stiamo andando proprio bene questo mese.’
Questi manager trovano molto più difficile spronare i dipendenti a raggiungere buoni risultati.

I buoni risultati richiedono un feedback continuo e, se si pretende il massimo dai collaboratori, si è per forza aggiornatissimi sui numeri e su quello che significano. I motivatori fanno i compiti a casa e sanno qual è la realtà dei fatti, e ne rendono sempre partecipi i loro collaboratori.

 

Tratto da: Steve Chandler & Scott Richardson (2015). 100 regole per motivare gli altri, Milano: Vallardi, pp.28-30