Formazione outdoor, perché? “Mantenere rapporti puramente professionali” è il miglior ingrediente per un team?

Ho avuto l’onore di progettare e vivere una giornata formativa ‘diversa’. Potrebbe essere semplicemente etichettata come ‘team building’; è stata, invece, molto di più.

L’obiettivo della giornata formativa era quello di esplicitare e sviluppare quei comportamenti essenziali per fare squadra, creare sicurezza psicologica e innestare feedback ‘radicalmente sinceri’ (così come descritti da Kim Scott nel suo libro ‘Sincerità radicale’).

Il luogo scelto, grazie al team leader e alla disponibilità aziendale, è stato una bellissima malga in una zona ‘wild’ del Trentino dove anche il cibo è divino.

Perché si è optato per una formazione ‘outdoor’ con passeggiata inclusa?

Come ci ricorda John Medina “il cervello si è sviluppato nei grandi spazi aperti, e pensa ancora di vivere là”. Il biologo Harvard Wilson, che studia come la natura influenza il comportamento umano nella nostra vita quotidiana rendendo popolare il termine biofilia (coniato dal filosofo Erich Fromm), ci ricorda: “gli esseri umani sono biologicamente predisposti a cercare il contatto con le forme naturali. Non sono in grado di vivere un’esistenza completa e sana rimanendo distaccati dalla natura’.

Perché questa sensibilità ambientale? “Gli esseri umani hanno trascorso il 99,987% per cento della loro storia in ambienti naturali e la vita moderna può spingerci a periodi prolungati di stress, che possono portare a burnout, affaticamento mentale e persino danni cerebrali se non controllati” (John Medina, p. 120). Per creare una situazione positiva di benessere al lavoro, sviluppare connessioni e favorire la creatività, è stata quindi progettata con il team leader una giornata di lavoro fuori dall’ufficio.

Durante questa esperienza formativa è emerso un altro tema, forse perché la giornata si permeava di sempre maggior ‘confidenza’: “Mantenere rapporti puramente professionali” è il miglior ingrediente per un team? Fa bene la ‘confidenza’?

‘Mantenere rapporti puramente professionali’ è un’imposizione, una negazione di un concetto essenziale: siamo tutti esseri umani, con sentimenti umani, e persino al lavoro, abbiamo bisogno di essere considerati tali. Se questo non succede ci sentiamo alienati (e questo può spingerci a odiare il nostro luogo di lavoro e i nostri colleghi e colleghe).
Ormai è celebre la frase di Google: “Portate in ufficio l’intera vostra individualità”.

Non significa memorizzare compleanni e nomi dei famigliari dei colleghi. E nemmeno conoscere dettagli intimi della loro sfera personale, o sentirsi costretti a chiacchierare del più o del meno in occasioni sociali a cui non vorreste presenziare. Significa: riconoscere che siamo tutti esseri umani con esistenze e aspirazioni che vanno oltre le ambizioni legate al lavoro condiviso; trovare del tempo per impostare conversazioni autentiche, riuscire a conoscere gli altri a livello umano e capire cosa sia importante per loro…

La formazione outdoor crea tutto ciò!


Non c’è bisogno di urlare

“Come si potrebbe sospettare, le dimensioni di questa palestra mentale (cervello, ndr) influenzano direttamente la creatività, e per un semplice motivo: tutto ciò che influisce sul suo volume influisce anche sul numero di variabili che può contenere.

Quali tipi di esperienze influenzano le dimensioni della palestra? Probabilmente conoscete già la risposta, visto il nostro lungo allenamento con questo concetto: la perdita di controllo – lo stress negativo – influisce sulla capacità della memoria di lavoro momento per momento.

Ci sono molti modi per dimostrarlo. Una serie di esperimenti compiuti nel mondo reale ha studiato cosa succede alla memoria di lavoro quando una persona diventa verbalmente aggressiva. Aggressività verbale è l’eufemismo scientifico per «urlare», un comportamento che molti subordinati subiscono da capi irascibili.

Per amor di discussione, supponiamo di essere il capo irascibile. Dopo aver riscontrato un errore, decidiamo di mollare la nostra frizione emotiva e iniziamo a sbraitare contro il dipendente responsabile. Cosa succede al dipendente? Le nostre azioni riducono immediatamente la sua memoria di lavoro di ben il 52 per cento, alterando profondamente la capacità di carico del suo buffer di memoria. Questa riduzione può influire sulla sua produzione creativa praticamente in tutti i modi in cui è possibile misurarla.

Ulteriori ricerche forniscono un indizio sul perché di questa contrazione della memoria. Il suggerimento proviene da un luogo inaspettato: le forze dell’ordine e le testimonianze oculari.

I professionisti della salute mentale sanno che il trauma e la perdita di memoria si influenzano reciprocamente. Quando a una persona succede qualcosa di brutto – ad esempio un’aggressione – di solito subisce un certo livello di amnesia, soprattutto per gli eventi che si verificano nel periodo immediatamente successivo all’aggressione. Questo può influire direttamente sulla testimonianza oculare.

Di solito, però, l’amnesia non è totale. Se il trauma coinvolge un’arma di qualche tipo, come nel caso di un’aggressione con una pistola, le cose cambiano notevolmente. I sistemi di memoria del cervello premono il pulsante di registrazione per ricordare ogni dettaglio possibile sull’arma da fuoco. Si verifica anche in questo caso una grave contrazione della memoria, che sarebbe però più opportuno definire come uno spostamento, un’iper-riallocazione delle risorse. Questa concentrazione anormale a discapito di quasi tutto il resto si chiama focus sull’arma. Il fenomeno si ricollega direttamente alla questione delle urla. Se diventate verbalmente aggressivi nei confronti di qualcuno, avete essenzialmente trasformato la vostra bocca in un’arma. Il radar di localizzazione del vostro subordinato si concentrerà automaticamente sulla fonte della minaccia, cioè su di voi, mentre gli altri sistemi di memoria si indeboliranno. Invece di concentrarsi su quella che potrebbe essere una preoccupazione legittima, cioè l’errore, il subordinato si concentra sull’opposto, la vostra bocca arrabbiata.

Alcuni manager ignorano questo avvertimento, pensando che l’aggressione verbale aumenti la produttività innovativa. Non è così. Urlare non aumenta la creatività più di quanto brandire una pistola calmi le persone.”

Tratto da: John Medina, 2022, Il cervello al lavoro. Istruzioni per pensare meglio in ufficio e a casa. Torino: Bollati Boringhieri, pp. 139-140, traduttore Giuliana Olivero.

Donne, siate consapevoli non diffidenti

Leggendo il libro di Gillard e Okonjo-Iweala “Rompi il soffitto di cristallo! Vite straordinarie di donne che ce l’hanno fatta’, cosa mi porto a casa? Quali sono le “lezioni straordinarie per giovani donne” raccolte e condivise dalle autrici?

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“È un insulto all’intelligenza delle donne e della ragazze cercare di illuderle ignorando o minimizzando le sfide. Vogliamo che le aspiranti leader siano consapevoli delle dimensioni della questione di genere.
Detto questo, non vogliamo che nulla di ciò che scriviamo possa scoraggiare anche una sola donna o una sola ragazza dall’ambire a diventare una leader. Il nostro messaggio è l’esatto contrario dall’essere timorese. Piuttosto, è: Vai, buttati! […]

Lezione uno. La leadership in realtà non ‘riguarda solo i capelli’, ma purtroppo i giudizi sulle donne si basano ancora sul loro aspetto più di quanto non avvenga per gli uomini. Saperlo non significa necessariamente che devi fare qualcosa, figuriamoci cambiare il tuo stile in alcun modo. Non stiamo consigliando di assumere uno stylist e un truccatore. Ma non vogliamo nemmeno che tu sia sorpresa e sconcertata quando ci saranno commenti sul tuo aspetto; te lo devi aspettare.
[…]
Alla fine, dipende tutto da te, ma quando fai le tue scelte, fallo sapendo che, sebbene sia molto ingiusto, avranno delle conseguenze.
[…]

Lezione due. Non esiste un modo giusto per essere una donna leader. Il tuo stile di leadership è esattamente questo: unicamente tuo, non di qualcun altro.
[…] Le donne leader devono camminare sul filo di lama tra l’essere viste come persone autorevoli e non essere percepite come prive di empatia e generosità.  
[…] Ancora una volta, la scelta spetta a te. […]

Lezione tre. Erna ha parlato del tentativo di superare il problema di essere vista come ‘un po’ una stronza’. Può funzionare? Forse, e molte di voi potrebbero pensare che valga la pena provare.
[…]
La tua strategia di posizionamento pubblico dovrebbe essere deliberatamente calibrata per contrastare questa critica e includere attività e messaggi che mostrino le tue premure e le tue caratteristiche di condivisione, piuttosto che permettere ad altri di ridurti senza contestazioni alla caricatura di ‘una stronza’? Tutte decisioni che spettano a te, ma è sicuramente una questione su cui riflettere. Una volta che questa caratterizzazione prende piede, può essere impossibile cambiarla.

Lezione quattro. Le nostre leader non indicano un modo unico e ottimale per gestire il lavoro e la vita familiare, bambini compresi. Ovviamente non esiste un manuale o una serie di regole che funzioneranno per tutti. Un messaggio chiaro delle nostre leader è la necessità di parlare con il proprio partner di ciò che i rigori della leadership significheranno per la vostra famiglia. Farlo in anticipo può rendere più gestibile il raggiungimento di un accordo che funzioni in seguito.
Un’altra lezione dalle nostre leader è che un po’ di senso di colpa è inevitabile. Metti in conto che lo proverai sicuramente e pensa in anticipo a come lo affronterai. Il messaggio in questo libro dovrebbe rassicurarti. Le nostre leader affermano chiaramente che è possibile sopravvivere. Continuano ad avere relazioni forti con i loro figli, nonostante durante la loro carriera abbiano sacrificato molto il tempo da passare con la propria famiglia. […] la premura sulle scelte familiari, incluso se una donna decide di non avere figli. Come abbiamo visto, donne e uomini possono usare questa scelta per criticare e sminuire una donna senza figli, accusandola di essere fuori dal mondo. Possiamo e dobbiamo essere migliori di così.

Lezione cinque. La politica della scarsità farà a pezzi le donne come collettivo, se glielo permettiamo. Man mano che salirai verso livelli di leadership sempre più alti, ci sarà più competizione. […] vogliamo che molte persone aspirino a guidare, piuttosto che voltare le spalle.
Queste competizioni a volte ti metteranno contro uomini, a volte donne, a volte entrambi. Se la competizione è tra te e un’altra donna o altre donne, ti suggeriamo di fermarti un momento a riflettere. Chiediti, è giusto o è una trappola? Le donne sono costrette a combattersi a vicenda in una gara su un binario ristretto per un numero limitato di posti di comando e, intanto, gli uomini si prendono la maggior parte delle posizioni?
Se concludi di sì, è ingiusto. Ciò non significa necessariamente che devi rifiutarti di gareggiare. Dopotutto, essendo sostenitrici dell’uguaglianza di genere, come parte di una strategia provvisoria preferiamo che alcune donne ce la facciano piuttosto che nessuna. Per fare un esempio dal mondo degli affari, preferiremmo vedere anche solo il 30% delle cariche in un consiglio di amministrazione andare alle donne piuttosto che niente.
Tuttavia, che le donne siano in competizione per un numero limitato di opportunità disponibili non dovrebbe togliere forza alla necessità di impiegare le nostre energie nella priorità più radicale di spazzare via le regole truccate del gioco. A livello individuale, ciò significa non lasciarsi trascinare dalla lotta per il posto che si desidera al punto da ignorare le necessarie riforme strutturali. Se non ottieni il ruolo e un’altra donna lo fa, non indebolirla giocando sul genere. Se lo fai ti meriti un posto speciale all’inferno.
[…]

Lezione sei. […] Ci sono momenti in cui le donne faranno la cosa sbagliata e dovranno affrontarne le conseguenze. È quindi necessario un giudizio accurato su cosa sia la parità di trattamento, in modo che il processo e il linciaggio non siano diversi da quelli che toccherebbero a un uomo.
Ecco, pensiamo che essere consapevoli del problema sia un passo importante.
[…]

Lezione sette. Pensa ora al se, al come e al quando denuncerai il sessismo, nel caso dovesse capitare a te. Quale sarà la tua strategia quando accadrà a te? Non esiste una risposta perfetta a questa domanda. Molto dipenderà dal momento, dalla tua posizione in quel momento e dal tuo accesso ad alleati e sostenitori. Ma elaborare i possibili scenari di guerra ora, nella tua mente o con amici fidati, e le reazioni in gioco è un modo intelligente di prepararsi.
[…] La lezione chiave qui è che, purtroppo, esiste tutto: il sessismo, la vergogna e il silenzio. Quindi pianifica ora le tue reazioni.

Lezione otto. Ricorda sempre che sei un modello positivo. Nel corso del tempo, probabilmente passerai dall’essere qualcuno che guarda ai modelli di ruolo al diventare la persona che gli altri guardano e da cui si sforzano di imparare.
[…] Nel tuo percorso verso il potere, ci sono decisioni da prendere su di sé e come accedere a sponsor e mentori. Il nostro miglior consiglio è di iniziare con l’essere molto chiari su ciò che vuoi e quanto tempo vuoi dedicare a questo tipo di relazione.
[…] Cerca di rispondere alle domande: “Cosa voglio esattamente da un mentore?” e “Quanto tempo posso dedicargli ?”. Alla luce di quella decisione, allora cerca la persona più adatta. […]

Lezione nove: il potere dei contatti.
[…] Non sottovalutare quanto sia prezioso farti conoscere dalle persone c quanto spazio dovresti occupare. Inoltre, trascorri il tempo necessario per creare rete e costruire alleanze e amicizie. Ne vale la pena.

Lezione dieci. […] Abbiamo raccomandato alle donne leader di confrontarsi regolarmente con una persona esperta che possa periodicamente consigliarle su come viene percepita la loro leadership dal punto di vista del genere. Lo abbiamo consigliato perché può essere impossibile per una leader riconoscerlo da sola quando ci si trova in mezzo. Ora vogliamo ribadire questo consiglio. Meredith ci ha insegnato una lezione su come tutte noi possiamo non vedere i nostri comportamenti di genere mentre perseguiamo le nostre vite e i nostri obiettivi.
In risposta, cosa possiamo dire se non che abbiamo tutte bisogno di una donna nella nostra vita che periodicamente ci dica: “Stai scherzando? Ascolta te stessa!”.

Tratto da Gillard, J. & Okonjo-Iweala, N. (2022). Rompi il soffitto di cristallo! Vite straordinarie di donne che ce l’hanno fatta. Sansepolcro: Aboca.

Essere manager richiede coraggio, determinazione e molta pratica

Il 24 agosto, MITSloan Management Review pubblica un articolo di Detert, Kniffin, Leroy dal titolo ‘Saving Management from our obsession with leadership’ e voracemente lo leggo. Così interessante, ricco che decido di riportare o riassumere alcuni passaggi.

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Per decenni abbiamo “elevato” i leader e denigrato come “pedanti” i manager, pur sapendo quanto sia la pratica manageriale incredibilmente difficile e preziosa. Nel 1977, lo studioso di leadership Abraham Zaleznik ha messo i leader e la leadership su un piedistallo e di converso ha denigrato come banali le attività svolte dai manager.
La pandemia COVID-19 ha mostrato, invece, quanto le aziende abbiano avuto un disperato bisogno di persone che sapessero coordinare l’azione, risolvere problemi tecnici e affrontare abilmente la miriade di sfide umane che i dipendenti e le altre parti interessate hanno dovuto affrontare. Abbiamo avuto bisogno di manager in grado di mantenere le cose in ordine e supportare i dipendenti, non leader che tenessero discorsi commoventi ma distaccati dalle operazioni quotidiane.

Le cosiddette Grandi Dimissioni sono state piuttosto eloquenti al riguardo. Le persone che si sono licenziate in massa non l’hanno fatto perché il top executive della loro azienda non è sufficientemente visionario o ispiratore. Piuttosto, le persone hanno lasciato lavori scadenti, lavori che mancano di autonomia, varietà o opportunità di crescita; lavori che pagano male e non premiano equamente le prestazioni; lavori che non sono chiaramente definiti e strutturati; lavori privi di guardrail che impediscano il sovraccarico cronico e la frustrazione. Hanno anche lasciato i loro capi diretti, la cui mancanza di competenza manageriale quotidiana, affidabilità, inclusività e cura non è più tollerabile. E hanno lasciato le organizzazioni che hanno violato i contratti psicologici con i dipendenti contravvenendo alle regole non scritte di fiducia, equità e giustizia.

Se il numero di lavoratori che hanno lasciato il lavoro è stato straordinario, soprattutto in alcuni settori, i motivi non sono nuovi e non dovrebbero sorprenderci. I ricercatori organizzativi studiano il turnover da decenni. Le cause citate oggi, inclusa una scarsa soddisfazione sul lavoro, un basso senso di appartenenza e un minor coinvolgimento associati a una cattiva gestione, sono le stesse identificate in centinaia di studi individuali e molteplici meta-analisi. Nel decennio precedente la pandemia, ad esempio, la percentuale di dipendenti altamente coinvolti non ha mai superato il 22% tra i milioni di intervistati, e la relazione tra basso coinvolgimento e alto turnover è stata ben documentata. La pandemia da COVID-19 potrebbe essere stata un punto di svolta per ciò che le persone sono disposte a sopportare o a non sopportare più sul lavoro, ma non ha creato o modificato in modo significativo i problemi sottostanti: sono diffusi da molto tempo.

Perché questi problemi sono così onnipresenti e duraturi? Perché le organizzazioni e i top team minimizzano o ignorano quanto sia difficile essere semplicemente un buon manager: assumere, coinvolgere, sviluppare, istruire, supervisionare, valutare e promuovere abilmente le persone. I workshop sulla leadership sono ampiamente disponibili, ma tendono a concentrarsi su preoccupazioni di alto livello e dedicano poco o nessun spazio all’insegnamento di queste abilità fondamentali e critiche. […] Al contrario, hanno interiorizzato il messaggio forte che qualità come la visione strategica e la presenza esecutiva contano molto di più, lasciando i leader e le loro organizzazioni scarsamente attrezzati per affrontare la realtà.

[…]

I buoni manager progettano buoni lavori

Un’attenta progettazione del lavoro è spesso associata all’efficienza organizzativa. Certamente ha quel vantaggio, ma c’è anche un vantaggio psicologico: i manager possono soddisfare le esigenze di autodeterminazione dei dipendenti, ovvero di appartenenza, autonomia e senso di competenza, creando lavori che coinvolgono le persone senza farle esaurire. Mission e vision da sole non servono a queste funzioni.

I manager definiscono ruoli e compiti e forniscono risorse per svolgerli. Esaurimento, frustrazione, confusione, errori, esplosioni e burnout: queste sono le conseguenze di lavori privi di chiarezza e limiti; sono le cose che accadono prima che le persone lascino o vengano licenziate. Conosciamo questi risultati negativi da anni, da molto prima del COVID-19.

I buoni manager li prevengono definendo in dettaglio ruoli e compiti dei dipendenti. Spiegano obiettivi e aspettative, chiariscono il lavoro da svolgere, specificano a cosa dare la priorità, stabiliscono relazioni e canali di comunicazione e controllano periodicamente la comprensione di questi parametri per vedere se sono necessari ulteriori precisazioni. Queste attività di “strutturazione”, in gran parte ignorate negli ultimi decenni nonostante le numerose ricerche che ne hanno dimostrato l’importanza, forniscono stabilità, che consente ai dipendenti di sentirsi competenti e in controllo.

Spesso il problema non è che i ruoli non sono mai stati definiti; piuttosto, è che non sono stati aggiornati per stare al passo con i cambiamenti organizzativi, che trasforma ruoli inizialmente gestibili in ruoli schiaccianti. Se chiedi a un dipendente cosa è stato aggiunto al suo piatto negli ultimi mesi o anni, molto probabilmente può snocciolare un elenco impressionante. Ma se chiedi cosa gli è stato tolto dal piatto o cosa va bene smettere di fare, probabilmente avranno più difficoltà a trovare degli esempi.

Nella maggior parte delle organizzazioni, i manager sono molto più bravi nell’aggiungere lavoro per soddisfare esigenze sempre crescenti piuttosto che cessare attività che non sono più veramente importanti o che non valgono i problemi che stanno causando. Cessare un’attività, un compito, spesso richiede coraggio perché qualcuno ha investito in “ciò che abbiamo sempre fatto”. Fermare le cose significa che alcune persone potrebbero sentirsi inizialmente meno competenti o vedere il loro status declinare, o che alcuni gruppi ora abbiano meno potere o meno risorse. Così, temendo contraccolpi (o proteggendosi da queste stesse possibilità), molti manager non riescono a sottrarre responsabilità e compiti per aiutare i dipendenti a rimanere sani di mente. Un approccio più costruttivo è lottare per abbinare le risorse alle nuove esigenze. […]

[…] Non ha senso parlare di definire limiti e aspettative ragionevoli se i manager stessi – e i loro manager – inviano e-mail a tutte le ore, lavorano durante ogni vacanza e rispondono di sì a ogni nuova richiesta dall’alto. Non dovrebbe essere necessario avere il coraggio di dire di no o di creare messaggi automatici come “sono fuori sede”. Quando i manager fanno queste cose per primi, consentono agli altri di seguire il loro esempio senza timore di ripercussioni.

I manager progettano per la motivazione. Rendere il lavoro più gestibile è un inizio importante, ma non basta. Il lavoro stesso deve anche avere il potenziale per essere motivante su base continuativa. Ciò comporta la presa in considerazione della varietà e del significato delle attività nella progettazione del lavoro, assicurandosi che sia chiaro come appare il successo e creando opportunità regolari di crescita nel lavoro. Sfortunatamente, molti lavori mancano ancora di una o più di queste caratteristiche, anche se sappiamo da tempo i loro benefici motivazionali.

I buoni manager si prendono il tempo per identificare i problemi che possono far sembrare un lavoro intorpidito o privo di significato. Possono farlo attraverso conversazioni schiette con i dipendenti attuali o domande mirate poste durante i colloqui di uscita. I buoni manager affrontano i problemi che trovano, idealmente consentendo ai dipendenti di avere voce in capitolo su come i loro lavori potrebbero essere rielaborati per essere più motivanti. […]

[…] Mentre la struttura chiara previene il burnout, la microgestione estingue la creatività e l’iniziativa. Dopo avere chiaramente definito cosa deve essere fatto, a quale livello di qualità, per chi e entro quando, i buoni manager si tolgono di mezzo e si fidano delle persone per fare il loro lavoro. […] Le persone desiderano da tempo l’autonomia per determinare quando, dove e come fare il loro lavoro.

I buoni manager sviluppano le persone a standard elevati

[…] L’evidenza è chiara: trattare bene i dipendenti aiuta a soddisfare il loro bisogno di appartenenza.

Sebbene alcuni manager abbiano difficoltà su questo, molti altri vanno troppo oltre nella direzione opposta e non riescono a mostrare un “duro amore” quando è necessario. Quando essere amichevoli vira troppo vicino all’essere amici, a volte per il desiderio di essere adorati piuttosto che temuti dai dipendenti, i manager spesso lasciano il lavoro sporco di avere conversazioni difficili agli altri. Smettono di dire verità dure sulle aree di miglioramento o di affrontare comportamenti scorretti, minando sia la crescita dei dipendenti che le prestazioni organizzative.

I buoni manager capiscono che tale feedback è essenziale e non esitano a fornirlo per supportare lo sviluppo dei dipendenti e ritenere le persone responsabili.

I manager dicono tutta la verità su sviluppo e prestazioni. Tutti hanno margini di miglioramento. Anche i performer più forti hanno bisogno di qualcosa di più di un riconoscimento per un lavoro ben fatto; hanno anche bisogno di un feedback costruttivo su dove non sono stati all’altezza o su quali abilità dovrebbero lavorare. Tutti tranne i più grandi narcisisti sono consapevoli di non essere perfetti. I dipendenti sanno intuitivamente che i manager che non sono disposti a fornire un feedback onesto sullo sviluppo e sulle prestazioni probabilmente non stanno dicendo tutta la verità su molte altre cose.

Infine, non è “bello” nascondere informazioni che faciliterebbero il miglioramento e risparmierebbero alle persone tempo o energia preziosi. Ad esempio, in troppi casi, i dipendenti sono tenuti in sospeso piuttosto che dire a loro il perché non otterranno l’opportunità o la promozione desiderata. Questo non è gentile. È codardia: la prova di un manager che ha troppa paura per avere conversazioni difficili ed emotive. Anche nascondere un feedback onesto è un segno di mancanza di rispetto – è un’affermazione implicita secondo cui i dipendenti sono troppo fragili per ascoltare la verità e che preferirebbero avere una visione positiva distorta di sé stessi piuttosto che l’intera storia.

I manager affrontano un cattivo comportamento. I buoni manager denunciano anche i cattivi comportamenti. Non si limitano a dire “Non è un grosso problema” o dicono che se ne occuperanno in seguito per evitare di avere una conversazione difficile o prendere la decisione difficile ora. In breve, non si impegnano in razionalizzazioni che li rendono ciechi su ciò che è. Affrontano la propria paura di confronti scomodi o la riluttanza ad affrontare le ricadute.

I buoni manager si concentrano sull’equità

Il management non avviene nel vuoto. Il modo in cui i dipendenti si sentono riguardo al loro lavoro, alla loro organizzazione e alle loro relazioni con i colleghi e il loro manager si basa principalmente su giudizi. Non è solo quanto paghi qualcuno o come parli o valuti loro che conta; si preoccupano anche di come paghi, tratti e valuti coloro che li circondano. Le percezioni di equità contano molto e quelle percezioni si basano su confronti.

Quando la percezione dell’ingiustizia aumenta, la soddisfazione, l’impegno e lo sforzo dei dipendenti diminuiscono. Come mai? Perché queste percezioni minano la fiducia, privano i dipendenti della chiarezza, stabilità e sicurezza che cercano. Ecco perché i buoni manager non si limitano a evitare le ovvie violazioni della fiducia come urlare, insultare, rubare idee o discriminare sfacciatamente gli altri. Svolgono anche il duro lavoro necessario per creare e attenersi a processi equi e ritenere le persone responsabili del loro seguito.

I manager danno priorità ai processi. Per arginare le dimissioni, molte organizzazioni stanno aumentando la retribuzione e stanno iniziando a offrire vantaggi più generosi. Ma anche in contesti in cui questi cambiamenti sono assolutamente necessari, come la ristorazione e la vendita al dettaglio, non sono sufficienti. Anche i dipendenti si preoccupano molto di come le cose si decidono. Quali sono i processi per determinare come le persone vengono retribuite, premiate, promosse, selezionate per incarichi speciali o opportunità di apprendimento e così via? E tutti sottostanno agli stessi processi? Sul posto di lavoro, questi aspetti della giustizia procedurale spesso contano tanto per le persone così come i risultati equi. I buoni manager lo capiscono. Stabiliscono linee guida chiare per il processo decisionale, spiegano cosa sono e come vengono seguite e le applicano in modo coerente; tutto ciò gioca un ruolo enorme nella soddisfazione dei dipendenti e nell’intenzione di rimanere. Spiegano anche perché vengono prese certe decisioni, ad esempio che un minor numero di persone riceverà valutazioni migliori perché l’azienda cerca di differenziare e premiare meglio l’eccellenza, e di informare in modo più onesto i dipendenti su dove si trovano, anche quando sanno che quelle decisioni non saranno apprezzate dalle persone interessate.

[…]

I manager affrontano le ingiustizie. I danni involontari si verificano. Ad esempio, le negoziazioni per assumere o mantenere un dipendente di alto valore – o, se è per questo, solo per ricoprire ruoli critici – possono far sì che altri dipendenti si sentano sottopagati o non apprezzati. Le decisioni mantenute riservate su richiesta di un dipendente possono far sentire gli altri esclusi da qualcosa che li riguarda direttamente. Ciò è particolarmente vero in ambienti dinamici, dove non tutte le promesse fatte possono essere mantenute e non tutti i sistemi si dimostrano durevoli al variare delle condizioni. Quelle sono solo realtà, non segni di cattiva gestione.

La qualità della gestione è determinata da ciò che accade dopo in questi casi. Ad esempio, i buoni manager respingono i cambiamenti apportati dai livelli più alti che stanno influenzando indebitamente il personale. Non si nascondono dietro lo spostamento di responsabilità, accettando passivamente che “qualcuno sopra di me ha preso la decisione”. Invece, cercano di invertire le decisioni sbagliate. […]

Essere un buon manager non richiede di mettere in gioco il proprio lavoro. Tuttavia, implica la volontà di correre qualche rischio cercando di riparare i torti contro i dipendenti. La tua organizzazione doveva offrire di più per coinvolgere nuovi dipendenti? Bene. Ora combatti per ottenere lo stesso accordo con altre persone.

I buoni manager affrontano direttamente anche le proprie promesse non mantenute e le incongruenze. Ascoltano quando le persone esprimono rabbia o delusione e cercano di trovare alternative accettabili. E quando non riescono davvero a riparare qualcosa, lo dicono e si scusano per non aver sistemato le cose. Anche se ciò non impedisce una violazione della fiducia, può comunque evitare una rottura in piena regola dell’accordo implicito che mantiene i dipendenti connessi alla loro organizzazione.

Chiaramente, sarebbe molto più facile per i manager dire che stanno facendo tutto il possibile per sostenere l’equità, ma poi alzare la mano quando le cose non vanno come sperato. Ma così facendo minano l’integrità comportamentale: un impegno a perseguire l’equità come valore piuttosto che limitarsi a parlare della sua importanza. Ciò richiede una forza reale e, purtroppo, la ricerca mostra che accade troppo di rado.

Niente di tutto questo vuol dire che una leadership audace e visionaria non sia importante. In determinate situazioni, può essere essenziale, ad esempio per ribaltare un’organizzazione stagnante o in fallimento, affrontare un’interruzione tecnologica o avviare una nuova linea di attività. Né accettiamo una visione dicotomizzata degli esseri umani e delle loro capacità. Ci sono chiaramente persone che possono immaginare il futuro e condividere in modo persuasivo i loro piani e lavorare con gli altri per realizzarli.

Ma implementare una missione o una visione è fondamentale tanto quanto immaginarla e dobbiamo iniziare a trattarla in questo modo.

[…]

Il successo organizzativo dipende almeno tanto da questo lavoro quotidiano quanto dalle cose nobili. Senza una forte esecuzione, il grande pensiero – missioni basate sui principi, visioni avvincenti e strategie intelligenti – è poco.

Nonostante l’enorme attenzione data agli aspetti ispiratori della leadership, l’evidenza è chiara: la maggior parte delle persone sul posto di lavoro non è ancora ispirata, coinvolta o veramente impegnata. Molti stanno uscendo o pensano di uscire. Una buona gestione può aiutare a risolvere questi problemi. Non è meno preziosa di una buona leadership – ammesso che si debba fare una tale distinzione – né è più facile. Richiede coraggio, grinta e molta pratica. Ed è fondamentale per come le persone si sentono riguardo alla loro organizzazione, come si comportano e se rimangono. Smettiamola di fingere che sia un insieme di abilità minori e prendiamo sul serio la sua costruzione.

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Dopo aver letto l’articolo mi sono chiesta: e se i leader anziché creare visione e mission facessero gli operativi, i manager come potrebbero esercitare la propria funzione?

Poni ai tuoi diretti collaboratori queste 5 domande nel tuo prossimo check-in

In data 31.01.2022 HBR (Harvard Business Review) dava questo consiglio…

Se sei preoccupato che i tuoi dipendenti stiano guardando altrove, è ora di iniziare ad avere alcune conversazioni importanti. Ecco cinque domande chiave da porre ai tuoi collaboratori diretti al prossimo faccia a faccia per assicurarti che si sentano “visti e apprezzati”, prima che sia troppo tardi.

  1. Come vorresti crescere all’interno di questa organizzazione? Identifica le opportunità di sviluppo professionale di cui hanno bisogno, che si tratti di coaching, tutoraggio, maggiore visibilità o progetti più impegnativi. È più probabile che rimangano se sentono di essere in una fase di crescita.
  2. Senti uno scopo nel tuo lavoro? Attingi a ciò che è significativo per loro e collegalo ai valori dell’organizzazione.
  3. Di cosa hai bisogno da me per fare il tuo lavoro al meglio? Preparati a dedicare più tempo e risorse per aiutare i tuoi dipendenti a sentirsi realizzati.
  4. Cosa non stiamo facendo attualmente come azienda che ritieni dovremmo fare? Chiedere cosa ritengono che l’azienda potrebbe fare meglio – quali opportunità di mercato potrebbe trascurare, come sfruttare le risorse in modo più efficace, ecc. – comunica che i loro pensieri e opinioni contano.
  5. Riesci a fare del tuo meglio ogni giorno? Ciò ti consente di capire se i tuoi collaboratori stanno ottimizzando i loro punti di forza. Potresti continuare con “Quale parte del tuo lavoro elimineresti se potessi?” Non fare promesse, ma sapere quali aspetti del loro lavoro sono meno e più divertenti ti aiuterà ad apportare le modifiche necessarie per assicurarti che rimangano.

… forse è il momento di ascoltare i nostri collaboratori (anche se non abbiamo la sensazione che stiano andando altrove).

Questo suggerimento è adattato da “5 Questions Every Manager Needs to Ask Their Direct Reports“, di Susan Peppercorn.

Gentilezza del leader

Perché scrivere ancora di gentilezza, avendone già parlato (verso noi stessi e al lavoro?

Una recente ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista  The Academy of Management Journal il 5 gennaio 2021  (e ripresa da Stephen Jones su Management Today) suggerisce che mostrare gentilezza possa effettivamente aumentare la performance e che invece, in caso di sua mancanza, la performance ne risenta negativamente.

Il romanziere statunitense Henry James avrebbe dato tre consigli al nipote giunto al suo primo giorno di scuola. Ci sono tre cose nella vita umana che sono importanti: “Il primo è essere gentili. Il secondo è essere gentili. Il terzo è essere gentili.” Anche se forse le origini di questo riferimento non sono corrette, il messaggio invece…

Tutto è così incerto, le persone sono alle prese con paure e ansie, gestendo il lavoro (e la scuola) in modalità smart (o ibrida) e il compito del leader è trovare un modo per farli lavorare tutti verso lo stesso risultato, nonostante desideri, bisogni e aspirazioni differenti. Non è facile, e si può perdere la pazienza.

Ora una recente ricerca pubblicata su The Academy of Management Journal suggerisce che mostrare gentilezza possa effettivamente aumentare le prestazioni, o almeno che la mancanza di gentilezza danneggi le prestazioni.

Le ricercatrici Kira Schabram (che ho conosciuto presso Concordia University quando era ancora ‘studentessa’ e con la quale abbiamo collaborato nella stesura di un articolo proprio sulla leadership) e Yu Tse Heng dell’Università di Washington hanno misurato l’impatto della compassione tra un gruppo di lavoratori di servizi sociali e studenti stressati (in burnout). Hanno verificato che le “espressioni di compassione” possono ridurre i livelli di burnout minimizzando l’esaurimento, il cinismo e l’inefficacia. Le espressioni studiate sono di due tipi: o spinte che incoraggiano una persona a essere gentile con sé stessa o espressioni di compassione di un manager diretto.

Le studiose hanno evidenziato che le espressioni di compassione hanno il potenziale di generare rimedi benefici (come autocontrollo, appartenenza, autostima) che riducono le dimensioni del burnout.

Ancora oggi la gentilezza è sottovalutata in quanto tratto di leadership; proprio per questo è nata una collaborazione tra Saïd Business School, Global Thinkers Forum, Women of the Future e Hall & Partners dove è stato recentemente lanciato un premio per evidenziare le azioni di leader gentili in tutto il mondo.

La descrizione sul sito web della campagna Kindness & Leadership 50 Leading Lights definisce i leader gentili come coloro che si connettono con gli altri, permettono ai colleghi ad avere successo, ispirano la creatività e sono disposti a dedicare il loro tempo agli altri. Ci sono molti modi per fare tutto questo, e nessuno di loro implica gridare!

Ma la gentilezza non è solo organizzare una chiamata Zoom per conoscere qualcuno, ringraziare le persone per il loro duro lavoro o inviare loro biscotti. Si tratta anche di essere onesti e schietti.

Un percorso formativo italiano, dal retrogusto Australiano

Essere lavoratore, lavoratrice ibrido, cosa significa?

Quali nuove abitudini comporta?

Ha effetti sull’identità della persona che lavora?

E per il leader, cosa implica?

Queste ed altre domande sono state poste dal team Sanifonds e dal suo direttore Alessio Scopa per creare un percorso formativo personalizzato.

Molti spunti di riflessione provengono dagli studi del Centre for Transformative Work Design, nella persona di Sharon Parker e il suo team.

Silvia Pagliuca racconta sul blog ‘La nuvola del lavoro’ del Corriere della Sera, il caso Sanifonds, una buona pratica in questo momento di cambiamento.

Una opportunità di crescita personale e professionale per tutti noi che siamo stati coinvolti in questa sfida formativa.

Clicca sul link qui sotto per leggere l’articolo. Buona lettura!

Stiamo andando ad Abilene?

Durante un caldo pomeriggio in una piccola cittadina del Texas una famiglia sta giocando a carte quando il capofamiglia suggerisce di recarsi per cena ad Abilene, cittadina che dista circa 50 miglia. La figlia dice “Sembra una grande idea!”. La moglie, pur avendo qualche riserva per il lungo viaggio e il caldo, pensa che sia più importante mantenere armonia nel gruppo e dice: “Mi sembra ottimo! Spero solo che tua madre voglia venire”. La suocera dice: “Certamente vengo volentieri”.
Il viaggio è lungo, caldo e stancante. Quando arrivano al ristorante il cibo è pessimo. Tornati a casa dopo 4 ore sono “distrutti”. Uno di loro dichiara “E’ stato un gran bel viaggio, non è vero?”. La suocera risponde dicendo che in verità lei sarebbe stata volentieri a casa ma visto l’entusiasmo aveva accettato per non rovinare l’armonia. La figlia a quel punto esclama: “Nemmeno io volevo andare ma ho detto di sì perché tutti voi volevate andare!”. La moglie: “Io sono venuta per far felici voi. Solo un folle sarebbe uscito con questo caldo”. Il marito infine disse che aveva proposto il viaggio solo perché pensava che gli altri si stessero annoiando…

Leggiamo questa storia considerando la leadership orizzontale e la gestione dell’intelligenza collettiva. Cosa può evidenziare? Che l’essere umano tende ad:

In altre parole, ci si lascia trascinare da persone assertive e dominanti. Gli studi (i primi, 1997, sono firmati da Paulhus e Morgan; si veda anche Cameron e Kilduff, 2009) evidenziano che percepiamo le persone loquaci come più intelligenti di quelle silenziose.

Abbiamo anche la tendenza a considerare i loquaci come leader naturali. Più un individuo parla, più gli altri membri del gruppo concentrano l’attenzione su di lui, più gli attribuiscono autorevolezza e autorità man mano che la discussione prosegue. Giova anche parlare velocemente: giudichiamo costoro più capaci e piacevoli rispetto a chi parla lentamente. La ricerca non conferma il legame tra oratoria fluente e maggior acume.

Uno studio in ambito universitario, ad esempio, ha mostrato che gli studenti che parlavano per primi e più di frequente ottenevano in genere punteggi più alti, anche se le loro risposte non si erano rivelate migliori di quelle degli studenti meno loquaci.

Come possiamo non cadere in questa trappola? Come evitare di andare ad Abilene?
Il paradosso di Abilene mostra la nostra tendenza a seguire coloro che prendono l’iniziativa, quale essa sia. Spesso non sappiamo distinguere tra buone capacità di presentazione e vera dote di leadership. In merito un noto investitore, afferma: “È fin troppo facile confondere la parlantina con il talento. Chi si presenta come buon comunicatore, cordiale, vede premiate queste caratteristiche. Perché mai? Sono tratti positivi, certo, ma diamo eccessiva importanza alla presentazione e non sufficiente rilievo al contenuto e allo spirito critico”.

Quando la prossima volta lavoriamo con il nostro team, con i nostri collaboratori… possiamo usare una frase con simpatia e chiederci ‘Stiamo salendo sull’autobus per Abilene?’ affinché anche il collaboratore, collega, leader silente (pacato, umile, modesto, riservato, timido, gentile, mite, schivo, sobrio…) possa dire la sua e far sì che venga presa in considerazione.

Tratto da:

Harvey, Jerry B. (1988), The Abilene paradox and other meditations on management, Lexington

Cain, Susan (2012). The power of introverts in a world that can’t stop talking.

Nello sport si festeggiano i successi, perché in azienda si cercano i colpevoli?

Giovedì 4 giugno Jacopo Pasetti, un ‘diversamente ingegnere’ che ‘ama le imperfezioni delle aziende e la non linearità delle persone’ con la passione della pallanuoto, scrive un articolo su ‘L’altra metà del Sole – Alley Oop’.

Si può leggere questo articolo direttamente sul Sole 24 ore o qui sotto.

Al termine possiamo chiederci: a chi dedico il mio prossimo feedback positivo? Quando?

Nello sport si festeggiano i successi, perché in azienda si cercano i colpevoli?

Pallanuoto, campionato 2013. Dopo una stagione di serie A2 sempre al comando, la mia Como Nuoto sta per tornare in A1. Abbiamo vinto il primo play-off e stiamo giocandoci la finale. Sono a fine carriera e questa sarà per me l’ultima partita. Questa finale è la chiusura di un percorso partito dalla serie A1, che sta riportando la mia squadra del cuore là dove mi aveva accolto da giovane all’inizio del mio viaggio. Sono il più vecchio del gruppo, ma resto in campo ancora tanti minuti.

Sentire, ad ogni giocata riuscita, il sostegno dei miei compagni e l’urlo del pubblico mi toglie metà della sensazione di fatica. Vivo questi piccoli gesti di celebrazione con la carica di un ragazzino alla prima partita; mi tengono talmente in gioco che sul pari, ad un minuto dalla fine, il rigore della vittoria lo conquisto io. Non sarà mio il goal, ma poco cambia, l’importante è che abbiamo vinto. Parte la festa!

Soltanto nei giorni successivi ripensando alla partita mi sono accorto di quanti piccoli sbagli i miei compagni non avessero sottolineato. Ricordo di come fosse stato importante il sentire lo slancio portato dalle azioni riuscite e festeggiate da tutti con un gesto di gioia. Vincere aiuta a vincere, segnare aiuta a segnare ed evidenziare i piccoli successi dei compagni aiuta tutti nella miglior gestione della partita.

Questo nello sport è limpido, cristallino. Il successo va celebrato, la vittoria va goduta e la bella azione o il buon gesto tecnico/atletico vanno accompagnati dalla gratifica dei compagni e dai cori di centinaia di tifosi.

Nel contesto lavorativo l’importanza del feedback positivo e della celebrazione del successo è sicuramente nota a livello teorico, ma non sempre messa in pratica e troppo spesso poco vissuta sul piano emotivo. La ricerca del colpevole e l’approccio punitivo fanno parte del modo di agire di molti manager (per fortuna non di tutti) che spesso vengono ritenuti efficaci proprio perché sanno sottolineare l’errore e intervenire duramente sullo sfortunato che ha commesso lo sbaglio.

Nella nostra cultura lavorativa, l’attenzione al fallimento (purtroppo non orientata alla comprensione dell’errore e all’apprendimento, ma alla punizione di chi ha sbagliato) è molto più frequente dell’elogio del successo e del buon lavoro. Pensiamo ad esempio che la parola critica, facoltà o conoscenza che rende capaci di valutare l’operato di altre persone e il risultato della loro attività distinguendo il ben fatto da ciò che potrebbe esser migliorato, ha nel linguaggio lavorativo una accezione negativa. Quando qualcuno di competente ci muove una critica siamo abituati ad un giudizio ostile, raramente pensiamo subito ad una valutazione positiva. Per indorare la pillola qualcuno abbina alla parola “critica” il termine “costruttiva”, questo rafforza l’idea che dando la propria opinione agli altri ben di rado la si dia per esaltarne le attività svolte.

La metafora sportiva deve portarci a visualizzare le modalità festose con cui compagni e tifosi reagiscono alle belle giocate dei campioni, deve ricordarci che spesso il migliore amico del successo che si ha in una competizione è proprio la convinzione che si acquista azione dopo azione e nulla sostiene più che il sentirsi caricati dagli altri.

In ogni ambito diventa fondamentale, per sé stessi e la propria squadra, festeggiare l’obiettivo raggiunto o i passaggi chiave di un percorso. Quando si celebra il risultato proprio nel momento della vittoria si provano emozioni positive legando il piacere del target conseguito al processo che ha permesso di ottenerlo.

Il valore di questo aspetto nel lungo periodo è più forte e permanente di qualunque premio materiale e genera voglia di completare nuovamente un progetto o raggiungere un altro obiettivo per riprovare le stesse emozioni. Le endorfine rilasciate per un piccolo o grande successo che viene evidenziato e festeggiato generano felicità e voglia di ripetersi. Negare la celebrazione non solo fa perdere la possibilità di provare sensazioni positive, ma abbassa lo stimolo a cercarle nuovamente.

Nel lavoro, come nella vita di tutti giorni, il cervello di ognuno di noi abbina la sensazione positiva alla consapevolezza che l’impegno profuso stia portando a risultati soddisfacenti.

Un buon manager conosce le proprie persone e sa leggere piccoli e grandi risultati ottenuti, sottolineandoli e celebrandoli a dovere. La convinzione con cui questo gesto viene fatto è fondamentale per l’ottenimento del risultato motivazionale. Celebrare un successo, proprio o del team, senza esserne convinti genera sicuramente l’effetto opposto a quello desiderato.

E poi diciamocelo, quanto è stato bello veder tagliare i capelli a Camoranesi dopo la vittoria del mondiale di calcio nel 2006? E nella mia pallanuoto, quanto è affascinante ribaltare in acqua la porta dove hai segnato l’ultimo goal per sedersi sopra con tutta la squadra festeggiando col pubblico? La voglia di vincere ancora e ancora parte sicuramente da lì!

Da Trentino Sviluppo: pillole settimanali per la ripresa

“Trentino Sviluppo: tre consigli per ripartire. Tre idee o tre suggestioni che non possono mancare nel bagaglio di imprenditori ed imprese nei prossimi mesi per provare a rilanciarsi dopo il lockdown. È quello che Trentino Sviluppo chiede ad un gruppo di esperti e testimoni autorevoli, raccogliendoli in un nuovo format ideato per il web dal titolo ‘Link – Connessi con il futuro. Idee per ripartire” (A.M., Corriere del Trentino, 31.05.2020)

Con immensa gratitudine ho accolto questa opportunità (condivisa con Lelio Alfonso, già direttore generale alla Presidenza del Consiglio per la comunicazione istituzionale; Angelo Lorenzetti, allenatore dell’Itas Diatec Trentino Volley; Alessandro Garofalo, innovatore; Paolo Iabichino, marketing creativo; Cristiano Nordio, esperto in strategie di marketing; Riccarda Zezza, Imprenditrice sociale).

Primo consiglio: da scacchista a giardiniere. Una leadership diretta, militare come quella di uno “scacchista” in questo momento è la migliore? In questo momento dobbiamo abbandonare la tentazione di avere tutto sotto controllo come se fossimo dei maestri di scacchi e invece comportarci, piuttosto, come se fossimo dei giardinieri, con tanti fiori e tante piante da curare e far crescere. Creare un ambiente affinché ogni fiore e ogni pianta possa crescere e fiorire secondo la propria natura.

Secondo consiglio: investire sulle persone. Considerando anche questa nuova possibilità, al leader oggi viene sempre più chiesto di cambiare atteggiamento: da micro-manager, cioè dal controllo, a macro-manager, cioè una comunicazione trasparente, di condivisione delle informazioni, di empatia, di ottimismo. Che non significa essere sdolcinati, è una questione di onestà e feedback puntuali. Significa sempre più attenzione alle persone e alla relazione, creare e promuovere strategie di supporto dei collaboratori e di sostegno. Quando l’onda emotiva si abbatte, le reazioni comportamentali sono diverse e l’investimento sulle persone è la vera chiave per ripartire bene e ripartire in fretta.

Terzo consiglio: gestire l’incertezza. Sicuramente questa emergenza ci ha obbligati a sperimentare nuovi ruoli e nuove dinamiche aziendali e ci ha obbligati a mantenerci focalizzati sulla mission e sullo scopo. In un certo senso, ci ha obbligati a rispondere a questa domanda: perché facciamo quello che facciamo? Per questo possiamo vedere questa emergenza come se fosse un modello sperimentale. La sperimentazione obbliga i leader a chiedersi se, come persone e come capi, sono stati in grado di imparare da questa esperienza, scavando a fondo nelle qualità e nelle capacità che, talvolta, non si è consci di avere. Le risposte a queste domande ci aiutano a gestire l’incertezza del momento, a lavorare anche sui nostri punti di forza che non sapevamo che ci fossero e ci aiutano anche nel futuro. È il momento dell’incertezza, è anche il momento della sperimentazione.