Oggi, 13 novembre, è la giornata mondiale della gentilezza. E in questo periodo essere gentile e ricevere gentilezza è un dono assai apprezzato.
Questa mattina Carolina mi ha ricordato questo, chiedendomi ‘Che ne dici di allenare la gentilezza?’ e citando Lao Tzu, ‘La gentilezza delle parole crea fiducia. La gentilezza di pensieri crea profondità. La gentilezza nel dare crea amore’.
La gentilezza crea fiducia, connessione, bellezza. Come ci ricorda Seligman, Compiere un atto di gentilezza produce un aumento istantaneo di benessere. E racconta un aneddoto: Quando era piccolo, vedendo di cattivo umore il figlio, la madre gli diceva: “Caro, hai l’aria indispettita. Perché non esci e vai ad aiutare qualcuno?” Questa massima è stata testata rigorosamente a livello empirico.
Tutti noi abbiamo l’opportunità di essere gentili, anche verso noi stessi. La ricerca mostra che quando si è gentili con sé stessi e non ci si giudica severamente, si è più resistenti di fronte alle avversità.
Doniamo e viviamo gentilezza al lavoro? In una indagine INFOJOBS sulla gentilezza al lavoro, emerge che portare il caffè a un collega, sorridere al mattino quando si arriva in ufficio, dare una mano a chiudere un documento urgente migliorano la qualità della vita in ufficio. Il 78% degli intervistati afferma che la gentilezza dovrebbe essere inserita nel curriculum tra le soft skill.
Molti di noi oggi lavorano in ‘smartworking’, ma comunque possiamo riuscire a trovare un modo per donare gentilezza. E dopo aver fatto il nostro atto di gentilezza ‘osserviamo che cosa succede al nostro umore’.
L’immagine del fiore della gentilezza è stata creata da MMP proprio per riassumere la ricerca di InfoJobs.
Immaginiamo di parlare con un bambino, una bambina, nel mio caso con mia nipote Elena di 7 anni, e che alla domanda ‘come stai?’ lei mi risponda ‘bene, non benissimo’. E, sollecitata, mi dica che le manca la scuola, i compagni di classe, i nonni, le passeggiate…
In quel momento Elena (così come tutti i bambini) ricorda a noi adulti quanto sia importante, anche per lei, condividere il bagaglio emotivo che sta vivendo in quel momento, le emozioni che prova, senza negarle e senza essere obbligata ad una tossica positività.
Noi adulti possiamo cercare, ad esempio, nel fiore delle emozioni (di Robert Plutchick, l’emozione che ci corrisponde: dando la parola giusta all’emozione diamo significato a quello che stiamo provando e così possiamo accoglierla ed elaborarla perché più abili a distinguere la causa precisa dei nostri sentimenti. Ad esempio, da ‘sono triste’ posso dire ‘in questo momento mi sento triste’, perché noi non siamo la tristezza, noi proviamo la tristezza.
E come possiamo aiutare i bambini, le bambine con cui siamo in relazione?
Prendendo spunto dalla letteratura, da insegnanti, dai miei appunti di quando per due anni sono stata maestra (e il mio progetto dell’anno di prova è stato ‘musica ed emozioni’) e dalle abilità informatiche di Michele, qui uno strumento intitolato ‘Termometri delle emozioni’. Si considerano le 4 coppie di emozioni primarie di Plutchick e il ‘gioco’ è facile:
Scegli l’emozione che in quel momento provi (o che provi in quella determinata situazione)
Dai una temperatura
Condividiamo il bagaglio emotivo dei bambini e delle bambine, per vivere con più consapevolezza questo periodo ‘straordinario’ anche per loro.
Per scaricare i “Termometri delle emozioni” cliccare download!
Molte persone oggi sono sovraccaricate nel loro lavoro (possono vivere quello che in gergo viene chiamato ‘possibile momento di stress con viva attivazione fisiologica e comportamentale’): alcune affrontano problemi derivanti dallo ‘smartworking’, altre cercano freneticamente di pensare a un Piano A, B e C se le loro attività lavorative chiudessero, alcuni cercano di destreggiarsi tra lavoro da casa con bambini piccoli che corrono, e altri ancora trovano impossibile concentrarsi vista la pandemia che stiamo vivendo. Inoltre sentiamo la mancanza di riti comunitari e riti individuali.
Cosa facciamo in questo momento di grande stress? Ognuno reagisce a modo suo e si cerca di sopravvivere. Alcuni non hanno nemmeno il tempo di pensare a ciò che sta accadendo.
L’essere umano, quindi, potrebbe attivare il meccanismo di coping centrato sull’evitamento.
Cosa significa coping? È la messa in atto di strategie nel tentativo di far fronte all’evento, può essere un pensiero o una azione. Sono strategie del qui & ora (Lazarus & Folkman, 1984). Il coping centrato sull’evitamento (avoidance coping) è il tentativo dell’individuo di ignorare la minaccia dell’evento stressante o attraverso la ricerca del supporto sociale o impegnandosi in attività che distolgono la sua attenzione dal problema. La ricerca mostra che evitare di pensare a una situazione stressante può essere utile a breve termine ma, a lungo termine, può contribuire alla depressione e al burnout.
Piuttosto che attivare una strategia di coping centrato sull’evitamento, un modo più adattivo per affrontare lo stress è praticare l’autocompassione (self-compassion).
Secondo Neff e Vonk (2009), autocompassione significa tre cose:
Essere consapevoli dei propri sentimenti (Consapevolezza). Riconoscere le proprie emozioni. Rallentare il necessario per sentire i sentimenti e non scappare. Dare parola alle proprie emozioni. Noi siamo compassionevoli verso un nostro amico, verso colui che soffre. E verso di noi? Sono ansiosa? Confusa? Preoccupata? Arrabbiata? Frustrata? Come si manifestano questi pensieri e sentimenti? Va bene dire ‘È dura. È difficile in questo momento’.
Sii gentile con te stesso. Immagina che un tuo amico sia venuto da te e abbia condiviso con te di sentirsi sopraffatto, di non riuscire a svolgere il proprio lavoro in modo adeguato e di non poter rispondere nemmeno alle richieste della famiglia. È altamente improbabile che tu dica al tuo amico di smettere di essere debole e di lavorare di più. Eppure parliamo spesso a noi stessi in questo modo quando non stiamo ‘affrontando bene la situazione’. Trattati allo stesso modo in cui tratteresti un amico. Chiediti “come posso prendermi cura di me stesso meglio?” Se non riesci a portare a termine tutte le tue attività o pensi che la tua performance lavorativa sia basso o se la tua casa non è lucida e in ordine, concediti una pausa. Non giudicarti così duramente.
Accetta la tua umanità. Il fatto che a volte potresti sentirti sopraffatto, nervoso o incapace di farcela, non ti rende debole: ti rende umano. Non esiste una persona perfetta: tutti abbiamo dei fallimenti. Quindi non sei solo o unico se sbagli o non stai affrontando bene o stai fallendo in qualche modo. È la nostra realtà condivisa come umani – stiamo tutti lottando a modo nostro. Condividere i tuoi sentimenti con gli altri aiuta.
L’auto-compassione non è debolezza. In effetti, la ricerca mostra che quando sei gentile con te stesso e non ti giudichi severamente, sei più resistente di fronte alle avversità (Neff, K. D., e McGehee, P., 2010). Né è egoistico esercitare autocompassione. In effetti, non puoi supportare pienamente le altre persone o essere efficace nel tuo ruolo di genitore, padre, manager, madre, sorella, amica, se non ti senti bene (Barnard, L. K., e Curry, J. F., 2011).
La persona capace di provare auto-compassione, quando si confronta con i fallimenti, offre a se stessa un caldo abbraccio. Non si giudica, non si arrabbia, non si fa del male, non si sminuisce. Si comprende con gentilezza. Resta calma, non va in ansia, non soccombe allo stress. Per questo reagisce meglio alle avversità.
Kristin Neff, la studiosa di autocompassione, ci propone un esercizio di autocompassione dal titolo ‘pausa di autocompassione’.
Identifica l’emozione che provi (è frustrazione, è dolore, è paura…)
Ricordati l’umanità condivisa (es. la sofferenza fa parte della vita. A tutti capita di sentirsi così, ogni tanto)
Metti le mani sul cuore, o in una posizione rassicurante. E diciamoci: voglio avere compassione di me, voglio trovare la forza e la pazienza…
Nel precedente post si è parlato della ‘tossicità del pensiero positivo’; nei giorni scorsi ho avuto l’opportunità di lavorare con UOMINI e DONNE, soccorritori, i quali vivono emozioni forti, anche negative (e non esclusivamente perché c’è una vittima, ma anche perché l’intervento ‘non è andato nel migliore dei modi’ pur avendo portato in salvo il paziente).
Oggi diamo voce a Susan David che
si chiede e ci chiede: ‘Siamo agili emozionalmente? Sappiamo dare un nome
e una tonalità alle emozioni che proviamo? Oppure le neghiamo e
le interpretiamo in modo convenzionale e rigido come buone o cattive,
positive o negative?
La rigidità di fronte alla
complessità è deleteria. Abbiamo bisogno di maggiori livelli di agilità
emozionale per avere una vera elasticità e crescita.
La bellezza della vita è
imprescindibile dalla sua fragilità. La sola certezza è l’incertezza, eppure non attraversiamo questa
fragilità con successo o in modo sostenibile. L’Organizzazione Mondiale della
Sanità dice che la depressione è ora la prima causa di disabilità a livello
globale, superando il cancro, superando i problemi cardiaci. E nel momento di una
maggiore complessità, di cambiamenti tecnologici, politici ed economici mai
visti prima, stiamo vedendo come la tendenza delle persone sia quella di bloccarsi
sempre più in rigide risposte alle loro emozioni.
Da un lato potremmo rimuginare
ossessivamente le nostre sensazioni. Che restano incastrate dentro le nostre
teste. Convinti di essere nel giusto. O vittime delle nostre informazioni.
Dall’altro, potremmo rinchiudere le nostre emozioni, metterle da parte e ammettere
solo quelle emozioni ritenute legittime.
In un sondaggio che Susan
David ha condotto su circa 70.000 persone, ha scoperto che un terzo o
giudica se stesso per avere le cosiddette “brutte emozioni,” come
tristezza, rabbia o persino dolore, o prova con determinazione a mettere da
parte queste sensazioni.
Emozioni normali, naturali,
vengono viste come buone o cattive. Ed essere positivo è diventata una nuova
forma di correttezza morale. A chi ha il cancro viene automaticamente detto
di rimanere positivi. Alle donne, di smettere di essere così arrabbiate. …
È una tirannia. È la
tirannia della positività. Ed è crudele. Scortese. Inefficace. E la propiniamo
a noi stessi e agli altri.
La ricerca sulla soppressione
emotiva mostra che quando le emozioni vengono accantonate o ignorate, si
rafforzano. Gli psicologi la chiamano amplificazione.
Non è da fraintendere Susan
David (che non nega Seligman). Non è anti-felicità. Le piace essere felice. Anzi,
si definisce una persona, una donna, piuttosto allegra. Ma quando si accantonano
le emozioni normali per abbracciare una falsa positività, si perde la capacità
di sviluppare abilità di gestire il mondo così com’è, non come desideriamo che
sia.
Quante volte sentiamo “Non
voglio provare perché non voglio sentirmi deluso. ” O: ” Voglio solo
che questo sentimento vada via.”… e come dice Susan David, “Sono gli
obiettivi di persone morte.” Solo le persone morte non sono mai
indesiderate o importunate dai loro sentimenti.
Solo le persone morte non si
stressano, non hanno mai i cuori spezzati, non provano mai la delusione che deriva
dal fallimento. Le emozioni
pesanti fanno parte del nostro contratto con la vita. Non si riesce ad avere
una carriera significativa o crescere una famiglia o rendere il mondo un posto
migliore senza stress e disagio. Il disagio è il prezzo di ammissione a una
vita che abbia senso.
Quindi, come possiamo smantellare la rigidità e abbracciare l’agilità emotiva? La ricerca mostra che l’accettazione radicale di tutte le nostre emozioni persino quelle confuse, difficili, è la base della capacità di recuperare, del prosperare, e della vera, autentica felicità. Ma l’agilità emotiva non è solo l’accettazione di emozioni. Sappiamo anche che l’accuratezza conta. Nella ricerca David ha trovato che le parole sono essenziali. Spesso usiamo etichette veloci e facili per descrivere i nostri sentimenti. Quando etichettiamo le nostre emozioni accuratamente, siamo più abili a distinguere la causa precisa dei nostri sentimenti. (Possiamo usare il fiore delle emozioni di Robert Plutchik, l’immagine sopra, oppure rileggere ‘Il conflitto è il padre di tutte le cose‘). E ciò che la scienza chiama potenziale di prontezza nel cervello si attiva, permettendoci di fare passi concreti.
Le emozioni, inoltre, sono
dati, non sono direttive. Possiamo accettare e analizzare le nostre emozioni
per il loro valore senza aver bisogno di ascoltarle. Possediamo le nostre
emozioni, non sono loro a possedere noi. Possiamo, ad esempio, provare a non dire
“Sono arrabbiato” o “Sono triste”. Quando diciamo
“Sono” ci fa sentire come se noi fossimo l’emozione. Mentre noi siamo
noi, e l’emozione è una fonte di dati. Possiamo invece provare a registrare
il sentimento per quello che è: “Sto notando che mi sento triste” o
” mi sento arrabbiato.”
Queste sono abilità essenziali
per noi e sono fondamentali nell’ambiente di lavoro. David evidenzia nella sua
ricerca l’importanza della considerazione individualizzata. Quando alle
persone è permesso provare la loro verità emozionale, coinvolgimento,
creatività e innovazione fioriscono nell’organizzazione.
Diversità non è solo persone,
è anche cosa c’è dentro le persone. Includendo la diversità di emozione.
L’agilità emotiva è l’abilità
di stare con le proprie emozioni con curiosità, compassione e specialmente il
coraggio di fare passi connessi al valore.
La positività può essere potente. Quando siamo alle prese
con ansia e pensieri negativi, se riusciamo a trattenere anche solo una goccia
di speranza – che ce la faremo, che non siamo definiti dai nostri pensieri, che
non siamo così sbagliati come il cervello ci comunica – possiamo resistere e farcela.
La positività che abbiamo trovato in noi stessi ci aiuta.
Detto questo, forse contro-intuitivamente,
la positività non è sempre il modo migliore per aiutare gli altri. Come
possiamo rendere ‘positivo’ qualcuno? Certamente non spargendo polvere di
positività su di loro facendo scomparire i loro problemi. E onestamente, quando
le persone sono alla ricerca di aiuto e supporto, di solito non sono alla
ricerca di una positività manifesta e ispiratrice.
La psicologa Whitney Hawkins Goodman ha creato una tabella interessante mostrando cosa sia la ‘positività tossica’. La tabella mostra la differenza tra parole che sostengono l’altro/a con ‘positività empatica’ e il tentativo di sostenere l’altro/a con ‘positività tossica’. Secondo Whitney, c’è differenza tra ‘È difficile … credo in te’ e ‘Sii felice!”. Forse anche a noi è successo che la frase ‘Sii felice!’ ci abbia dato terribilmente fastidio… ora sappiamo perché… l’abbiamo percepita ‘tossica’! 😉
POSITIVITÀ EMPATICA
POSITIVITÀ TOSSICA
Questo è difficile; hai già
fatto cose difficili prima e io credo in te.
Ti passerà!
So che c’è molto che
potrebbe andare storto. Cosa potrebbe andare bene?
Sii positivo!
Tutte le sensazioni sono
benvenute.
Solo buone sensazioni!
È normale avere un po’ di
negatività in questa situazione.
Pensieri felici!
A volte rinunciare è ok.
Qual è il tuo risultato ideale?
Non mollare mai!
Non è mai divertente
sentirsi così. C’è qualcosa che possiamo fare oggi che ti piacerebbe?
Sii solo felice!
Probabilmente è davvero
difficile vedere qualcosa di buono in questa situazione. Ne daremo un senso
più tardi.
Ci troviamo in quel periodo dell’anno in cui la gioia dovrebbe essere ovunque, stampata su ogni viso … veramente? E se per qualcuno, un nostro collega, amico, invece, fosse proprio un brutto periodo?
In tutto il mondo c’è la tendenza a mascherare le emozioni negative. Quando incontriamo qualcuno con la gamba ingessata tutti domandiamo: ‘Cosa è successo?’; se la tua caviglia si rompe le persone ti chiedono di raccontarglielo, se invece è la tua vita ad andare in frantumi (stiamo lottando contro una malattia, la depressione, ci stiamo separando, o stiamo affrontando una perdita), nessuno (o pochi) lo fa.
Forse anche un nostro collega sta affrontando un periodo difficile… e noi non sappiamo come comportarci. Allora con il sorriso e con tutte le buone intenzioni lo salutiamo e gli auguriamo Buon Natale. Questo è il miglior comportamento che possiamo mostrare all’altro? Che cosa vorremmo noi se fossimo in quella situazione? Veramente il biglietto di auguri con scritto Buon Natale e Felice Anno Nuovo è il miglior modo per mostrare la nostra vicinanza?
Forse tutti noi abbiamo sentito il nome Sherly Sandberg. È direttrice operativa di Facebook, prima è stata vicepresidente delle vendite on line per Google e capo dello staff al Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America. Successo, amore, e fama… e l’1 maggio 2015 ha inizio la sua tragedia: Dave, suo marito e la sua roccia (e amministratore delegato di SurveyMonkey), mentre si allenava in palestra in Messico, morì. Da quel momento Sherly era certa che lei e i suoi figli, due, non avrebbero più potuto provare la vera gioia.
Sherly chiede aiuto ad Adam, non tanto per lei… bensì per i suoi figli. Questa richiesta di aiuto ha dato il via anche ad una ‘collaborazione’ che ha portato ad una illuminante pubblicazione (OPTION B.).
Tutti noi conosciamo tante (tanti) Sherly… che stanno affrontando un lutto, un divorzio, una malattia… e che non vedono l’ora che le vacanze natalizie siano passate!
Ormai è risaputo che il supporto sociale è la chiave di aiuto… Ma come?
Non essere ossessionati dal dire la cosa giusta. Molte volte vorremmo andare a trovare l’amico, fargli una telefonata… ma non lo facciamo per paura di disturbare, perché non sappiamo cosa dire, perché sarà l’amico quando è pronto a iniziare a parlare… Insomma non sappiamo cosa fare! Siamo convinti che le parole sbagliate causeranno più dolore. Non raggiungere affatto una persona può essere ugualmente e anche più doloroso. Ad esempio, Emily McDowell scrisse che la cosa peggiore di avere un linfoma non era tanto la sensazione di malessere per la chemioterapia o la perdita dei capelli, ma ‘la solitudine e la sensazione di isolamento che provavo nel momento in cui i miei amici più cari e i miei familiari sparivano perché non sapevano cosa dirmi, o quando dicevano le cose più sbagliate senza neanche rendersene conto’. Un’e-mail, un messaggio di testo, una lettera o un messaggio di saluto che riconosce il loro momento difficile può fare la differenza. È vero che chiedere ‘Come va?’ ferisce profondamente chi sta male, perché dà l’impressione che niente sia diverso dal solito… è altrettanto vero che chiedere ‘Come stai oggi?’ sia molto meglio, perché si riconosce che per quella persona ogni singola giornata è una lotta. Spesso sentiamo luoghi comuni, come: ‘andrà tutto bene’; secondo lo scrittore Tim Lawrence ‘la cosa migliore da fare è mostrare che ci siamo accorti della situazione e dire con onestà: Riconosco il tuo dolore, sono qui con te.’
I gesti semplici e concreti aiutano davvero le persone Se vogliamo fare di più che chiedere ‘Come stai oggi’, ci si può offrire di fare la spesa, di preparare il pranzo, di tenere i bambini per qualche ora… Questi gesti alleviano lo stress e mostrano all’altro che ci interessiamo a lui con onestà emotiva. Molte volte chiediamo sinceramente ‘Posso fare qualcosa per te?’… e l’amico non ha risposte. Questo amico non ha risposte perché le richieste possono sembrare imposizioni o impossibili. Lo scrittore Bruce Feiler afferma: ‘per quanto possano essere buone le nostre intenzioni, questo atteggiamento sposta la decisione sulla persona che soffre. Anziché offrire di fare qualcosa, semplicemente fatelo’.
Non forzare qualcuno a godersi le vacanze Sostenere qualcuno che sta affrontando una tragedia o una perdita durante questo periodo dell’anno non significa cercare di farli sentire pieni di allegria natalizia. Bensì quello di accettare qualsiasi esperienza di vacanza che vogliono. Non vogliono l’albero di Natale? Bene. Vogliono saltare i servizi religiosi quest’anno? OK.
Apprezzare i vecchi ricordi e crearne di nuovi Fornisce conforto mostrare la nostra volontà di amare i vecchi ricordi e di crearne di nuovi. Concentrarsi sui piccoli momenti, creare piccole attività piuttosto che dissuaderli dal loro dolore. E questo possiamo farlo anche in ufficio… creare nuovi rituali, creare piccole bolle di felicità.
Il dolore è un sussurro per il mondo, ma un clamore dentro di noi. Più del sesso, più della fede, perfino più della morte, il dolore viene ignorato pubblicamente e non se ne parla se non in quei brevi momenti ai funerali (Anna Quindlen).
Sappiamo che è l’amigdala che ci fa perdere la trebisonda, che permette al Neanderthal che c’è in ognuno di noi di rivivere, facendoci diventare più stupidi.
La ricerca ci mostra come viene coinvolta l’amigdala quando utilizziamo lo smartphone. Erik Peper e Richard Harvey dell’Università di San Francisco, in uno studio di aprile 2018, evidenziano che le notifiche di email, Facebook, Instagram, Snapchat, Twitter … possono ‘essere’ così importanti da interrompere quello che stiamo facendo e guardare il cellulare.
E in quel momento ci poniamo una domanda: Ignorare o interrompere quello che sto facendo?
Le notifiche attivano gli stessi percorsi neuronali di pericolo imminente, di attacco di un predatore, cioè i percorsi dell’amigdala. E possiamo rimanere sequestrati da questo comportamento: l’amigdala infatti memorizza con la ripetizione.
L’amigdala imprime le risposte comportamentali e questo può portarci alla dipendenza da smartphone. Il comportamento di dipendenza da uso di smartphone forma connessioni neurologiche nel cervello in modo simile alla dipendenza di sostanze stupefacenti, come gli oppiacei, causando interferenze nella produzione di dopamina (la dopamina è il neurotrasmettitore che regola la ricompensa e incoraggia le persone a svolgere attività che possano offrire piacere).
Se non diamo al nostro sistema il tempo di rigenerarsi (da smartphone), la degenerazione neuronale può avvenire.
Sappiamo che è difficile rompere una dipendenza e sappiamo anche che non è impossibile. Per ricaricarsi e ricostruire una connessione sociale, possiamo sviluppare una attenzione proattiva.
Alcune strategie per essere PROATTIVI sono:
Disattivare le notifiche delle app. in modo da non interrompono il lavoro
Pianificare il tempo per guardare e rispondere a Email, Facebook, Twitter, Instragram, Snapchat… si può anche informare gli altri degli orari pianificati di lettura (es. 11-12)
Organizzare un tempo ininterrotto di massima concentrazione (no social media in questo periodo)
Spegnere i devices digitali durante eventi sociali (cene o chiacchierate con amici, colleghi, familiari…)
Essere attivo, per scelta, quando siamo con gli altri (no social media)
Creare un gioco per evitare l’uso di smartphone. Ad esempio, quando si esce a cena, tutti posizionano il telefono nel mezzo del tavolo e si fa un accordo che la prima persona che tocca lo smartphone pagherà il conto (o il dolce…)
Creare tempo non strutturato senza stimolazione per consentire l’opportunità auto-riflessione e rigenerazione
Tratto da:
Peper, E. & Harvey, R. (2018). Digital addiction: increased loneliness, anxiety, and depression. NeuroRegulation, 5(1), 3-8.
Oggi conosceremo parte del pensiero scientifico che sostiene l’idea di empatia. Un approfondimento come opportunità per capire meglio noi stessi e chi ci sta a cuore.
Alcuni dati:
oggi il 75% degli studenti universitari valuta se stessi come meno empatici rispetto agli studenti di 30 anni fa…
il 99% delle persone provano una qualche sorta di empatia (chi fa parte di quell’1%? … psicopatici)
Che cos’è l’empatia? L’empatia (dal greco: en dentro, pathos sentimento) è quando si comprende la prospettiva di qualcun altro e si vive, sperimenta quei sentimenti.
Come si differenzia dalla simpatia? Simpatia (dal greco: syn insieme, pathos sentimento. Nel significato originario molto simile ad empatia) è quando si ha compassione ma non necessariamente si condividono la prospettiva e/o le emozioni.
L’empatia è naturale. Gli esseri umani sono intrinsecamente empatici; infatti noi siamo strettamente connessi con le persone nella nostra vita (ad esempio i nostri cari).
La ricerca dimostra che le persone possono imparare ad avere empatia per un estraneo/straniero entrando in contatto con lui/lei anche solo poche volte (e anche solo per telefono). Inoltre le persone che usano del proprio tempo per l’auto-riflessione tendono ad avere più empatia.
COME AIUTA L’EMPATIA?
Abbassa lo stress: le persone che praticano qualche tipo di meditazione che incoraggia l’empatia, come l’essere amorevoli, riducono le risposte immunitarie indotte dallo stress e godono di una salute generale migliore. Un altro studio evidenzia che i medici che mostrano più compassione ai loro pazienti, hanno un livello di stress più basso in situazioni emotivamente intense.
Aiuta le nostre relazioni: le persone che riescono a cogliere il punto di vista del partner hanno una relazione più serena e sperimentano meno negatività con il loro partner.
Aiuta a sentirsi più connessi: l’empatia aiuta a sentirci legati agli altri, riducendo e dissolvendo le barriere tra di noi, favorendo lo spostamento da una prospettiva dell’interesse personale verso il dare altruistico.
Riduce il dolore: le persone che danno conforto e comprensione a un’altra persona che vive la stessa condizione, sperimentano (entrambe le parti) una diminuzione del dolore.
Rende i leader migliori: i capi che sono empatici tendono a ottenere prestazioni migliori dai dipendenti perché i dipendenti si fidano di loro in quanto i capi hanno a cuore i loro interessi.
COME ESSERE PIÙ EMPATICI?
L’empatia è una abilità che può essere sviluppata e praticata! Alcune strategie possono essere:
Essere curiosi e parlare con persone non appartenenti alla solita cerchia di amici e conoscenti.
Cercare gli aspetti in comune con gli altri, non le differenze.
Ascoltare veramente gli altri, e non aver paura di rendersi vulnerabili.
Leggere narrativa. Le persone che leggono narrativa hanno ottenuto un punteggio più alto in un test che ha chiesto loro di dedurre i pensieri e le emozioni degli altri (rispetto a coloro che leggono romanzi di uno specifico ed esclusivo genere letterario, o saggistica o nulla).
Provare un’altra vita. Come: se si è atei, provare ad andare in chiesa; leggere una pubblicazione con una prospettiva politica diversa rispetto alla propria.
Vivere nei panni di un’altra persona. Durante una conversazione immaginare quello che la persona sta pensando, o provando.
EMPATIA AL LAVORO
Come può il capo mostrare empatiaai propri collaboratori?
Ascoltare senza interrompere
Immaginare i ‘sentimenti’ dei collaboratori (come il collaboratore si sente)
Durante la conversazione, riformulare riflettendo con loro con una frase tipo: ‘Quello che dici è…’
Validare i loro sentimenti: ‘Comprendo i tuoi sentimenti…’
Mostrare sostegno e chiudere la conversazione
Nessuna analisi, per favore. L’empatia reprime il pensiero analitico e viceversa. È difficile per il cervello usare entrambe le abilità contemporaneamente.
Tratto da: Do you have enough empathy? Why empathy matters. https://my.happify.com/hd/empathy-can-change-your-life-infographic/
Motivation Moves People sta preparando un training sulla gestione del conflitto. Che cosa è, per noi, un conflitto? Perché ciò che conta è come ognuno di noi lo vive e di conseguenza lo definisce.
L’etimo della parola conflitto deriva dal latino, dal verbo cum-fligere, il quale se è inteso in senso intransitivo significa scontro, se inteso in senso transitivo significa incontro. Anche la parola conflitto ci mostra che tutto ha almeno due facce: una parola che contiene al suo interno due significati, apparentemente opposti. La parola conflitto non contiene il significato di evitare. Quante volte abbiamo sentito che anche relazioni personali sono naufragate perché il marito, la moglie evitavano lo scontro… Cosa significa questo? A noi la scelta di come viverlo: scontro o incontro?
Se diventassimo degli aikidoka (cioè praticante dell’aikido) del conflitto? Il termine Aikido è composto da tre ideogrammi che significano: (AI) armonia-amore, (KI) spirito-essenza-energia, (DO) via-metodo; la via dell’armonia attraverso l’energia è l’essenza di questa arte marziale cosiddetta morbida. ”Lo scopo dell’Aikido non è vincere sull’altro. È una via per armonizzare il mondo e farne un’unica famiglia.” Per l’aikido è chiaro che dove c’è un vincente, c’è un perdente, che cercherà di ribaltare il risultato e che, quindi, alla fine, chi vince perde.
Quante volte pensiamo che la causa del conflitto sia l’altro? E l’altro pensa che siamo noi? Siamo abituati a pensare in termini di causa-effetto. Questa logica non funziona per le persone e ancor meno se pensiamo ai conflitti. Il conflitto produce rabbia, odio, risentimento… e spesso diamo la colpa di queste emozioni e la responsabilità del nostro malessere all’altro. Vogliamo veramente rifiutarci di assumerci la responsabilità delle nostre emozioni? Non siamo forse co-creatori delle emozioni e, anche, dei conflitti? La parola emozione, dal verbo latino moveo (muovere) con il prefisso e (movimento da), significa ‘impulso ad agire’. Le emozioni hanno aiutato l’essere umano a sopravvivere e ad evolvere.
Prendiamo carta e penna e rispondiamo a queste 3 domande.
Pensiamo ad una emozione che ci è capitato di sperimentare in un conflitto; descriviamola, dandole un nome (ad esempio, rabbia per essere stato offeso dal mio collega).
Adesso individuiamo in quale parte del corpo sentiamo questa emozione (ad esempio, prurito alle mani, mascella serrata…).
Descriviamone la forma, il calore, il peso (ad esempio, quadrata, bollente, 10kg).
Queste tre domande ci aiutano ad essere ancora più consapevoli delle nostre emozioni. Pensiamo ad emozioni come paura, disgusto, felicità, vergogna… quale parte del corpo si attiva per ogni emozione? Per ognuna di esse abbiamo una differente reazione sia fisica sia mentale. Un gruppo di ricercatori finlandesi ha costruito una mappa delle emozioni del corpo umano. La mappa (vedi immagine sopra) mostra una scala di colori che si riferisce a dove sentiamo le emozioni nel corpo a seconda del sentimento che proviamo. Ad esempio, sentiamo ovunque la felicità, la paura nel petto.
La mappa mostra le sei emozioni primarie, o di base (sopra) e sette emozioni secondarie (sotto) così come lo stato neutrale. La mappa è un modello affidabile, culturalmente universale, di come il nostro corpo reagisce ad ogni emozioni. Come già disse Marco Aurelio nel 150 d.C. l’anima assume il colore dei suoi pensieri.
Ora che abbiamo una immagine delle emozioni, riconosciamo le emozioni come energia, e siamo consapevoli di essere co-creatori delle nostre emozioni, a noi la scelta di come muoverle. Possiamo usarle per mostrare la nostra convinzione di essere nel giusto, attaccare e mantenere vivo il conflitto, oppure possiamo riconoscere i segnali fisiologici, identificarli, connetterli con i sentimenti, con le azioni, capire anche ciò che l’altro prova ed uscire dalla logica causa effetto e reazioni automatiche.
Non possiamo eliminare od evitare il conflitto. Anzi… il conflitto è ricco di potenziale creativo. Come diceva Eraclito, il conflitto è padre di tutte le cose. Ed essendo padre di tutto, possiamo, riusciamo a vedere il conflitto come uno stimolo, una opportunità, qualche cosa di energico, appassionante, creativo e coinvolgente?
A noi la scelta di gestirlo! Per provare, simulare, migliorare la gestione del conflitto… ci vediamo in aula!
Tratto da:
Fragomeni Tiziana (2016). Surfando il conflitto. Franco Angeli
Nummenmaa, L., Glerean, E., Hari, R., & Hietanen, J. K. (2014). Bodily maps of emotions. Proceedings of the National Academy of Sciences, 111(2), 646-651.
Ci troviamo in quel periodo dell’anno in cui la gioia dovrebbe essere ovunque, stampata su ogni viso … veramente?
E se per qualcuno, un nostro collega, amico, invece, fosse proprio un brutto periodo?
In tutto il mondo c’è la tendenza a mascherare le emozioni negative. Quando incontriamo qualcuno con la gamba ingessata tutti domandiamo: ‘Cosa è successo?’; se la tua caviglia si rompe le persone ti chiedono di raccontarglielo, se invece è la tua vita ad andare in frantumi (stiamo lottando contro una malattia, la depressione, ci stiamo separando, o stiamo affrontando una perdita), nessuno (o pochi) lo fa.
Forse anche un nostro collega sta affrontando un periodo difficile… e noi non sappiamo come comportarci. Allora con il sorriso e con tutte le buone intenzioni lo salutiamo e gli auguriamo Buon Natale. Questo è il miglior comportamento che possiamo mostrare all’altro? Che cosa vorremmo noi se fossimo in quella situazione? Veramente il biglietto di auguri con scritto Buon Natale e Felice Anno Nuovo è il miglior modo per mostrare la nostra vicinanza?
Forse tutti noi abbiamo sentito il nome Sherly Sandberg. È direttrice operativa di Facebook, prima è stata vicepresidente delle vendite on line per Google e capo dello staff al Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America. Successo, amore, e fama… e l’1 maggio 2015 ha inizio la sua tragedia: Dave, suo marito e la sua roccia (e amministratore delegato di SurveyMonkey), mentre si allenava in palestra in Messico, morì. Da quel momento Sherly era certa che lei e i suoi figli, due, non avrebbero più potuto provare la vera gioia.
Sherly chiede aiuto ad Adam, non tanto per lei… bensì per i suoi figli. Questa richiesta di aiuto ha dato il via anche ad una ‘collaborazione’ che ha portato ad una illuminante pubblicazione (OPTION B.).
Tutti noi conosciamo tante (tanti) Sherly… che stanno affrontando un lutto, un divorzio, una malattia… e che non vedono l’ora che le vacanze natalizie siano passate!
Ormai è risaputo che il supporto sociale è la chiave di aiuto… Ma come?
Non essere ossessionati dal dire la cosa giusta.
Molte volte vorremmo andare a trovare l’amico, fargli una telefonata… ma non lo facciamo per paura di disturbare, perché non sappiamo cosa dire, perché sarà l’amico quando è pronto a iniziare a parlare… Insomma non sappiamo cosa fare!
Siamo convinti che le parole sbagliate causeranno più dolore. Non raggiungere affatto una persona può essere ugualmente e anche più doloroso. Ad esempio, Emily McDowell scrisse che la cosa peggiore di avere un linfoma non era tanto la sensazione di malessere per la chemioterapia o la perdita dei capelli, ma ‘la solitudine e la sensazione di isolamento che provavo nel momento in cui i miei amici più cari e i miei familiari sparivano perché non sapevano cosa dirmi, o quando dicevano le cose più sbagliate senza neanche rendersene conto’.
Un’e-mail, un messaggio di testo, una lettera o un messaggio di saluto che riconosce il loro momento difficile può fare la differenza.
È vero che chiedere ‘Come va?’ ferisce profondamente chi sta male, perché dà l’impressione che niente sia diverso dal solito… è altrettanto vero che chiedere ‘Come stai oggi?’ sia molto meglio, perché si riconosce che per quella persona ogni singola giornata è una lotta.
Spesso sentiamo luoghi comuni, come: ‘andrà tutto bene’; secondo lo scrittore Tim Lawrence ‘la cosa migliore da fare è mostrare che ci siamo accorti della situazione e dire con onestà: Riconosco il tuo dolore, sono qui con te.’
I gesti semplici e concreti aiutano davvero le persone Se vogliamo fare di più che chiedere ‘Come stai oggi’, ci si può offrire di fare la spesa, di preparare il pranzo, di tenere i bambini per qualche ora… Questi gesti alleviano lo stress e mostrano all’altro che ci interessiamo a lui con onestà emotiva.
Molte volte chiediamo sinceramente ‘Posso fare qualcosa per te?’… e l’amico non ha risposte. Questo amico non ha risposte perché le richieste possono sembrare imposizioni o impossibili. Lo scrittore Bruce Feiler afferma: ‘per quanto possano essere buone le nostre intenzioni, questo atteggiamento sposta la decisione sulla persona che soffre. Anziché offrire di fare qualcosa, semplicemente fatelo’.
Non forzare qualcuno a godersi le vacanze Sostenere qualcuno che sta affrontando una tragedia o una perdita durante questo periodo dell’anno non significa cercare di farli sentire pieni di allegria natalizia. Bensì quello di accettare qualsiasi esperienza di vacanza che vogliono. Non vogliono l’albero di Natale? Bene. Vogliono saltare i servizi religiosi quest’anno? OK.
Apprezzare i vecchi ricordi e crearne di nuovi Fornisce conforto mostrare la nostra volontà di amare i vecchi ricordi e di crearne di nuovi. Concentrarsi sui piccoli momenti, creare piccole attività piuttosto che dissuaderli dal loro dolore. E questo possiamo farlo anche in ufficio… creare nuovi rituali, creare piccole bolle di felicità.
Il dolore è un sussurro per il mondo, ma un clamore dentro di noi.
Più del sesso, più della fede, perfino più della morte, il dolore viene ignorato pubblicamente e non se ne parla se non in quei brevi momenti ai funerali (Anna Quindlen).
Motivation Moves People riprende la scrittura nel 2018!