Qualche giorno fa ho letto un articolo sul Sole24 ore di Luca Villani scritto il 22 maggio 2019, dal titolo: Romolo e Remo, due differenti stili di leadership che oggi ha una sfumatura interessante.
L’articolo, sotto riportato, ci fa riflettere su due modelli di leadership:
quello dinamico, visionario, coraggioso e anche egocentrico e tirannico (Remo,
leader ‘naturale’) e quello inclusivo, collaborativo e più lento (Romolo). Noi
conosciamo sia Remo sia Romolo; ora è arrivato il momento di trasformarci e
diventare Romolo, di creare quel noi e imparare a rinunciare, a perdere,
a organizzare, a evolvere in un ‘noi’ più complesso e inclusivo.
Buona lettura e buona visione del film ‘Il primo re’.
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«Il primo re» è un film italiano molto originale: un mini-kolossal che ha
fatto e farà discutere per numerosi motivi. In primo luogo per l’argomento, il
mito di Romolo e Remo, un tema impresso nella nostra memoria scolastica e al
tempo stesso poco conosciuto. Poi per la realizzazione – insolita per un film
italiano – estremamente cruda e realistica, ispirata a pellicole come
Apocalypto e The Revenant. Infine per la lingua: un «proto-latino» assai
credibile, messo a punto da un gruppo di ricercatori dell’Università la
Sapienza di Roma.
Il leader naturale
Ma c’è un’altra chiave di lettura che merita di essere considerata: quella
legata ai modelli di leadership. Per gran parte del film il protagonista è
Remo: non solo perché Romolo è ferito quasi a morte, ma perché Remo è
effettivamente un leader naturale. Forte fisicamente, determinato e astuto,
libera se stesso, il fratello e un piccolo gruppo di compagni di sventura
catturati dai nemici; assume il comando del gruppo, in virtù della sua
superiorità nel combattimento; riesce a cacciare un cervo, e quindi a nutrire i
suoi; in tutto questo, trasporta il fratello moribondo. Nel frattempo, però, il
suo atteggiamento si fa sempre più dispotico e violento, e chi prova a sfidarlo
paga con la vita. «Vi ho salvati, vi ho guidati, vi ho nutriti: sono il vostro
re», dice a un certo punto, e non gli si può dare torto. Il suo progetto,
insomma, funziona: a tenere unita la squadra è un perfetto mix di risultati,
carisma, terrore.
Entra in scena il “noi”
A un certo punto del loro viaggio, i protagonisti conquistano un villaggio
sterminandone gli uomini e assumendone senza tanti complimenti il controllo
davanti a una platea di vecchi, donne e fanciulli. Fin qui, siamo all’interno
delle logiche – pur spietate – del mercato o, fuor di metafora, della
sopravvivenza. Ma quando Remo uccide – in preda a uno scatto d’ira – l’anziano
e inerme capo villaggio, travalica un limite etico e innesca la svolta
narrativa. Mentre Remo, infatti, riparte con i suoi armati, Romolo resta al
villaggio, parzialmente ristabilito, trovandosi a dover gestire una frattura
apparentemente senza soluzione. «Seppelliamolo insieme», dice allora. Due
parole con le quali emerge come nuovo leader, di una specie diversa: pio,
avrebbero detto gli antichi, inclusivo diremmo noi oggi.
E non è, si badi bene, la sua una posizione nobile ma improduttiva. Al
contrario: quando Remo viene assalito nuovamente dai nemici, meglio armati e
organizzati, a salvarlo è proprio Romolo, spalleggiato da un esercito di
ragazzini del villaggio, un esercito di popolo, arruolato non più con la forza
ma in ragione di un’idea di bene comune non solo teorizzata ma praticata
“insieme”, con la sepoltura dell’anziano. Walk the talk, fai quello che dici,
ci insegnano oggi gli esperti di management. Il mito ci dice come andrà a
finire: vinta la battaglia, il conflitto di visione fra i due fratelli esplode
e ad avere la meglio è il “fragile” Romolo.
Due modelli
Insomma, siamo in presenza di due modelli di leadership ben noti: quello
dinamico, visionario, coraggioso ma spesso egocentrico e tirannico; e quello
inclusivo e collaborativo, magari più lento, come lenta è la guarigione di
Romolo, che di fatto per gran parte del film sembra prepararsi al suo scatto
finale. Due modelli che chi lavora all’interno di una qualsiasi organizzazione
conosce perfettamente, avendoli visti all’opera numerose volte in tutte le
varianti possibili, a volte addirittura in coabitazione (o in furiosa
contrapposizione). Quale è migliore? Sarebbe facile concludere che il manager-Romolo
è da preferire, non solo sul piano etico, ma perché ottiene risultati più
profondi e duraturi (come fondare Roma, un brand oggi un po’ appannato ma
capace di sopravvivere per quasi tremila anni). Eppure resta incontrovertibile
il ruolo di Remo, senza il quale i due fratelli-soci e i loro “dipendenti” non
sarebbero mai sopravvissuti alle sfide iniziali.
Il ruolo del tempo
E allora? E allora probabilmente ogni organizzazione ha bisogno di
entrambi: di Remo e di Romolo. Di audacia e di strappi violenti, frutto
dell’intuizione, quasi solipsistici; e di ricomposizioni più lente, profonde,
plurali. Meglio ancora: la dicotomia non è solo sincronica (A oppure B), ma si
fa ancora più affascinante se la leggiamo in modo diacronico (A e poi B).
Perché è il tempo, come nell’ottimo film di Matteo Rovere, uno dei protagonisti
di ogni storia. E allora, forse, la lezione è proprio che ogni leader deve
nascere Remo, visionario, risoluto e competitivo, startupper, se vuole
emergere; ma guai a lui se non impara a rinunciare, a perdere, a organizzare, a
evolvere in in un “noi” più complesso e inclusivo. Pena il rischio di rimanere
solo (e magari morto, metaforicamente), smarrendo l’occasione di attraversare
il Tevere per fondare qualcosa di più grande.