Come l’empatia può cambiare la nostra vita?

Oggi conosceremo parte del pensiero scientifico che sostiene l’idea di empatia. Un approfondimento come opportunità per capire meglio noi stessi e chi ci sta a cuore.

Alcuni dati:

  • oggi il 75% degli studenti universitari valuta se stessi come meno empatici rispetto agli studenti di 30 anni fa…
  • il 99% delle persone provano una qualche sorta di empatia (chi fa parte di quell’1%? … psicopatici)

Che cos’è l’empatia? L’empatia (dal greco: en dentro, pathos sentimento) è quando si comprende la prospettiva di qualcun altro e si vive, sperimenta quei sentimenti.

Come si differenzia dalla simpatia? Simpatia (dal greco: syn insieme, pathos sentimento. Nel significato originario molto simile ad empatia) è quando si ha compassione ma non necessariamente si condividono la prospettiva e/o le emozioni.

L’empatia è naturale. Gli esseri umani sono intrinsecamente empatici; infatti noi siamo strettamente connessi con le persone nella nostra vita (ad esempio i nostri cari).

La ricerca dimostra che le persone possono imparare ad avere empatia per un estraneo/straniero entrando in contatto con lui/lei anche solo poche volte (e anche solo per telefono). Inoltre le persone che usano del proprio tempo per l’auto-riflessione tendono ad avere più empatia.

COME AIUTA L’EMPATIA?

  • Abbassa lo stress: le persone che praticano qualche tipo di meditazione che incoraggia l’empatia, come l’essere amorevoli, riducono le risposte immunitarie indotte dallo stress e godono di una salute generale migliore. Un altro studio evidenzia che i medici che mostrano più compassione ai loro pazienti, hanno un livello di stress più basso in situazioni emotivamente intense.
  • Aiuta le nostre relazioni: le persone che riescono a cogliere il punto di vista del partner hanno una relazione più serena e sperimentano meno negatività con il loro partner.
  • Aiuta a sentirsi più connessi: l’empatia aiuta a sentirci legati agli altri, riducendo e dissolvendo le barriere tra di noi, favorendo lo spostamento da una prospettiva dell’interesse personale verso il dare altruistico.
  • Riduce il dolore: le persone che danno conforto e comprensione a un’altra persona che vive la stessa condizione, sperimentano (entrambe le parti) una diminuzione del dolore.
  • Rende i leader migliori: i capi che sono empatici tendono a ottenere prestazioni migliori dai dipendenti perché i dipendenti si fidano di loro in quanto i capi hanno a cuore i loro interessi.

COME ESSERE PIÙ EMPATICI?

L’empatia è una abilità che può essere sviluppata e praticata! Alcune strategie possono essere:

  • Essere curiosi e parlare con persone non appartenenti alla solita cerchia di amici e conoscenti.
  • Cercare gli aspetti in comune con gli altri, non le differenze.
  • Ascoltare veramente gli altri, e non aver paura di rendersi vulnerabili.
  • Leggere narrativa. Le persone che leggono narrativa hanno ottenuto un punteggio più alto in un test che ha chiesto loro di dedurre i pensieri e le emozioni degli altri (rispetto a coloro che leggono romanzi di uno specifico ed esclusivo genere letterario, o saggistica o nulla).
  • Provare un’altra vita. Come: se si è atei, provare ad andare in chiesa; leggere una pubblicazione con una prospettiva politica diversa rispetto alla propria.
  • Vivere nei panni di un’altra persona. Durante una conversazione immaginare quello che la persona sta pensando, o provando.

EMPATIA AL LAVORO

Come può il capo mostrare empatia ai propri collaboratori?

  • Ascoltare senza interrompere
  • Immaginare i ‘sentimenti’ dei collaboratori (come il collaboratore si sente)
  • Durante la conversazione, riformulare riflettendo con loro con una frase tipo: ‘Quello che dici è…’
  • Validare i loro sentimenti: ‘Comprendo i tuoi sentimenti…’
  • Mostrare sostegno e chiudere la conversazione

Nessuna analisi, per favore. L’empatia reprime il pensiero analitico e viceversa. È difficile per il cervello usare entrambe le abilità contemporaneamente. 

 

Tratto da: Do you have enough empathy? Why empathy matters. https://my.happify.com/hd/empathy-can-change-your-life-infographic/

 

Può il nostro atteggiamento mentale (forma mentis) alterare la nostra esperienza attuale e influire sul nostro futuro?

Luca Mazzucchelli, direttore di Psicologia contemporanea, presentando il libro di Kelly McGonigal, Il lato positivo dello stress,  ci ricorda che il nostro mondo è composto dal 20% dai fatti che ci accadono, e l’80% da come ci poniamo di fronte ad essi.

Cosa significa? Che alcune convinzioni influenzano. In altre parole: un atteggiamento mentale distorce il mondo di pensare, sentire e agire. È come un filtro attraverso il quale si osserva il mondo. Non tutte le convinzioni si trasformano in atteggiamenti mentali. Gli atteggiamenti mentali sono idee fondamentali che riflettono la nostra filosofia di vita.

Cosa dice la scienza? Alcune convinzioni possono influenzare, ad esempio, la longevità. Uno studio condotto da ricercatori dell’università di Yale ha mostrato che avere una visione positiva dell’invecchiamento ci rende, in media, più longevi di quasi otto anni (si vive 7,6 anni più a lungo di quelli che hanno una visione negativa). E questo stesso atteggiamento mentale predice altre importanti conseguenze sulla salute, come:

  • chi manifesta una visione più positiva dell’invecchiamento ha un rischio di infarto inferiore all’80%;
  • influenza il recupero dopo gravi malattie e incidenti (gli adulti che associavano l’invecchiamento a stereotipi positivi come ‘diventare saggi’, ‘competenti’, si sono ripresi più rapidamente dopo un attacco di cuore rispetto a coloro che esprimevano stereotipi negativi, come ‘sentirsi inutili’, ‘bloccati nelle proprie abitudini’);
  • una visione positiva dell’invecchiamento ha predetto una ripresa fisica più rapida e più completa da una malattia o dopo un incidente debilitante.

Levy e i suoi colleghi nei diversi studi hanno misurato il ripristino di abilità oggettive, come la velocità della camminata, l’equilibrio e la capacità di svolgere le attività quotidiane. Le persone con una visione negativa dell’invecchiamento hanno maggiori probabilità di considerare le cattive condizioni di salute come un qualcosa di ineluttabile. Al contrario, le persone con un atteggiamento positivo si impegnano in comportamenti che promuovono la salute.

Cambiare idea sull’invecchiamento può favorire la manifestazione di comportamenti sani. Quando abbiamo una visione positiva dell’invecchiamento, siamo più disposti a fare cose che ci procureranno futuri benefici. Anche i ricercatori del German Centre of Gereontologu di Berlino confermano questi risultati.

Cosa indicano questi risultati? Il modo in cui pensiamo all’invecchiamento condiziona la salute e la longevità, non in ragione di un qualche potere mistico del pensiero positivo; più banalmente, influenzando i nostri obiettivi e le nostre scelte.

Questo è un esempio di un effetto dell’atteggiamento mentale. Più potente dell’effetto placebo. Altera l’esperienza attuale e influisce sul futuro.

Cosa significano per Motivation Moves People questi risultati? Il modo di pensare lo stress può condizionare la salute, la felicità, il successo. Il nostro atteggiamento mentale verso lo stress dà forma: dalle EMOZIONI che percepiamo durante una situazione stressante al MODO in cui AFFRONTIAMO gli eventi fonte di stress. E questo può DETERMINARE la possibilità di crescere sotto pressione, oppure di manifestare esaurimento e depressione. 

Vogliamo coltivare un atteggiamento mentale in relazione con lo stress che ci aiuti a prosperare? Motivation Moves People vi aspetta in aula!

 

Tratto da: Kelly McGonigal (2015). The upside of stress. Why stress is good for you, and how to get good at it. Penguin Publishing Group.

Le ultime impressioni sono spesso le più durature

A coloro che hanno studiato uno strumento musicale spesso viene ricordata la rilevanza di eseguire con la maggiore perfezione possibile la prima e l’ultima battuta di uno spartito. Qualche mese fa, ho sottolineato l’importanza di fare una buona prima impressione riferendomi in particolare alla cura dell’abbigliamento. Oggi, invece, si evidenzierà, come anche l’ultima impressione, sia in grado di mutare il giudizio complessivo di un’esperienza.

Danny (Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia nel 2002) aveva chiesto a Redelmeier di trovare un esempio medico concreto di quella che aveva deciso di chiamare “regola del picco-fine”. Nel giro di breve tempo Redelmeier si era fatto vivo con una serie di proposte, ma la scelta era caduta sulle colonscopie. Sul finire degli anni Ottanta le colonscopie erano una pratica dolorosa, oltre che inquietante. Il disagio era talmente forte che molti pazienti si rifiutavano di sottoporsi a un secondo esame. Nel 1990, però, il cancro al colon era arrivato a uccidere sessantamila persone l’anno nei soli Stati Uniti, e la maggior parte delle vittime sarebbe potuta sopravvivere se la diagnosi tumorale fosse stata effettuata a uno stadio sufficientemente precoce. Una delle principali ragioni per cui il cancro al colon veniva scoperto così tardi, però, era il fatto che quasi nessuno, trovando l’esperienza insopportabile, era disposto a fare una seconda colonscopia. E se fosse stato possibile ritoccare il ricordo della prima esperienza per far dimenticare ai pazienti quanto era stata sgradevole?

Per tentare di rispondere a quella domanda Redelmeier aveva condotto un esperimento su un gruppo di circa settecento pazienti nell’arco di un anno. A una parte dei pazienti il colonscopio veniva estratto senza cerimonie al termine dell’esame, agli altri la punta della sonda veniva lasciata nell’ampolla rettale per tre minuti in più. Non si può dire che fossero minuti piacevoli: erano soltanto meno sgradevoli del resto della procedura. Il primo gruppo aveva avuto diritto alla classica procedura brutale e senza complimenti; il secondo aveva sperimentato un finale più dolce, o comunque meno doloroso, anche se in termini puramente algebrici il volume di dolore sperimentato era maggiore: lo stesso esame invasivo più tre minuti supplementari con il colonscopio infilato nel retto.

A distanza di un’ora i ricercatori entravano nella saletta dove i pazienti si riprendevano dall’esperienza e domandavano loro di quantificare il dolore provato. Quelli ai quali era toccato il finale meno brusco ricordavano di avere sofferto di meno, ma soprattutto sembravano meglio disposti all’idea di sottoporsi a una seconda colonscopia in futuro. Degli esseri umani che mai e poi mai avrebbero immaginato di preferire una dose maggiore di sofferenza erano stati indotti con uno stratagemma a scegliere l’alternativa nel complesso più dolorosa. Come scriveva lo stesso Redelmeier, giocando sulle parole last e lasting, “le ultime impressioni sono spesso le più durature”.

 

Tratto da: Michael Lewis (2017). Un’amicizia da Nobel, Kahneman e Tversky, l’incontro che ha cambiato il nostro modo di pensare, Milano: RaffaelloCortinaEditore, pp. 246-247.

Noi diamo feedback ai nostri collaboratori o aspettiamo fine anno?

Gli esseri umani desiderano ardentemente avere un riscontro alle loro azioni.
Proviamo ad ignorare un bambino di tre anni. All’inizio cercherà di ottenere in qualche modo la nostra attenzione, ma se continueremo a trascurarlo, presto si metterà a piangere o romperà qualcosa, perché qualsiasi tipo di feedback, anche quello negativo, è meglio dell’assenza totale di feedback.

Alcuni pensano che questo principio si applichi soltanto ai bambini, ma in realtà vale ancor di più per gli adulti. Per esempio, la forma di punizione più crudele nelle prigioni è l’isolamento. La maggior parte dei carcerati infatti farebbe di tutto – anche migliorare temporaneamente la propria condotta – per evitare di trovarsi in una situazione priva di feedback.

Chi ha brevemente sperimentato l’effetto rilassante di una vasca di deprivazione sensoriale? Ci immergiamo per pochi minuti in una vasca buia, simile a un bozzolo, e fluttuiamo in acqua salata a temperatura corporea, senza luci e rumore. È un’esperienza meravigliosa se dura pochi minuti, non di più.
Una volta l’unico addetto a una di queste vasche, stizzito per un’ingiustizia subita, abbandonò improvvisamente il lavoro, lasciando un cliente chiuso nella vasca. Diverse ore dopo questi fu tratto in salvo, e dovette essere ricoverato in ospedale non a causa di lesioni fisiche, ma per la psicosi causata dalla deprivazione di feedback sensoriale. Quando vengono eliminate tutte le informazioni che provengono dall’ambiente esterno, la mente crea da sé il feedback sensoriale in forma di allucinazioni, che spesso rappresentano le sue paure più profonde. Gli incubi e il terrore che ne derivano possono portare sull’orlo della follia anche una persona normale.

I nostri collaboratori non sono diversi. Se tronchiamo il feedback, le loro menti ne elaboreranno uno personale, spesso basato sulle loro peggiori paure. Non è un caso che ‘la fiducia e la comunicazione’ rappresentino i due problemi organizzativi più frequenti nelle indagini che riguardano il personale dipendente.

Uno dei metodi di tortura più famigerati utilizzato dai militari e dagli agenti segreti consisteva nel mettere il prigioniero ribelle nella cosiddetta black room (stanza nera). Infatti, il tempo passato nella totale deprivazione sensoriale spezza l’animo dei prigionieri più velocemente dell’abuso fisico.

E in famiglia? Il marito sta facendo fretta alla moglie affinché si prepari in tempo per uscire per la serata. La donna chiede: ‘come mi sta questa giacca?’. Il marito: ‘Bene, proprio bene, andiamo!’. ‘Ecco, lo sapevo che non mi sta bene. Non trovo nient’altro da mettermi’, esclama lei.

Gli esseri umani bramano un feedback reale, e non semplici commenti condiscendenti e tranquillizzanti: fatti, non parole!

I manager che hanno i problemi maggiori nel motivare i collaboratori sono quelli che danno il feedback minore. Quando i dipendenti dicono: ‘Come stiamo andando?’, loro rispondono: ‘Beh, non so, non ho ancora dato un’occhiata ai tabulati, non saprei, ma ho la sensazione che stiamo andando proprio bene questo mese.’
Questi manager trovano molto più difficile spronare i dipendenti a raggiungere buoni risultati.

I buoni risultati richiedono un feedback continuo e, se si pretende il massimo dai collaboratori, si è per forza aggiornatissimi sui numeri e su quello che significano. I motivatori fanno i compiti a casa e sanno qual è la realtà dei fatti, e ne rendono sempre partecipi i loro collaboratori.

 

Tratto da: Steve Chandler & Scott Richardson (2015). 100 regole per motivare gli altri, Milano: Vallardi, pp.28-30