Motivazione 2.0

A metà del secolo scorso, due giovani scienziati condussero alcuni esperimenti che avrebbero dovuto cambiare il mondo. Ma non fu così.

Harry F. Harlow era un professore di psicologia dell’Università del Wisconsin che negli anni Quaranta aveva fondato uno dei primi laboratori al mondo per lo studio del comportamento dei primati. Un giorno del 1949, Harlow e due colleghi presero otto macachi per un esperimento di due settimane sull’apprendimento. I ricercatori idearono un semplice rompicapo meccanico simile a quello raffigurato nella Figura 1.1. La soluzione richiedeva tre passaggi: togliere il perno, staccare il gancio, sollevare il cardine. Abbastanza semplice per voi e me; molto più difficile per una scimmia da laboratorio di sei chili.

Figura 1.1: il rompicapo di Harlow : situazione di partenza (a sinistra) e soluzione (a destra).

Gli scienziati misero i rompicapo nelle gabbie delle scimmie per osservare le loro reazioni e prepararle al test sulla capacità di problem solving che avrebbero effettuato alla fine delle due settimane. Ma quasi subito accadde qualcosa di strano. Senza essere guidate da uno stimolo esterno e da alcuna sollecitazione degli sperimentatori, le scimmie iniziarono a giocare con i rompicapo con attenzione, determinazione, e con qualcosa che assomigliava al divertimento. E molto rapidamente cominciarono a capire come funzionavano quei congegni. Quando il tredicesimo e quattordicesimo giorno Harlow sottopose le scimmie al test, i primati erano diventati già piuttosto abili. Risolvevano il rompicapo velocemente e regolarmente, due terzi delle volte in meno di sessanta secondi.

Ora, questo era abbastanza strano. Nessuno aveva insegnato alle scimmie come togliere il perno, staccare il gancio, sollevare il cardine. Nessuno le aveva ricompensate con cibo, affetto ma neanche con un applauso quando ci riuscivano. E ciò andava contro le idee comunemente accettate su come si comportavano i primati, inclusi quelli dal cervello più sviluppato e meno pelosi, meglio noti come esseri umani.

All’epoca gli scienziati sapevano che erano due le motivazioni principali che guidavano il comportamento. La prima era biologica. Gli esseri umani e gli altri animali mangiano per saziare la fame, bevono per alleviare la sete e si accoppiano per soddisfare il desiderio sessuale. Ma questi fattori non c’entravano nulla in questo caso. Come scrisse Harlow: “La soluzione non comportava cibo, acqua o soddisfazione sessuale”.

Però anche l’altra motivazione conosciuta non riusciva da sola a spiegare lo strano comportamento delle scimmie. Se quella biologica proviene dall’interno, questa seconda motivazione – ovvero le ricompense e le punizioni che l’ambiente dispensa per il fatto di comportarsi in un certo modo – proviene invece dall’esterno. Questa vale senza dubbio per gli esseri umani, che rispondono perfettamente a simili forze esterne. Se viene promesso uno stipendio più alto, lavoreremo di più. Se si prospetta la possibilità di prendere ottimo all’esame, studieremo più a lungo. Se si minaccia un biasimo per essere arrivati in ritardo o per non aver compilato correttamente un modulo, arriveremo puntuali e metteremo una crocetta su ogni casella. Ma nemmeno questa serviva a spiegare il comportamento delle scimmie. Come scrisse Harlow, e possiamo quasi vederlo mentre si gratta la testa, “Il comportamento ottenuto in questa ricerca solleva alcune domande interessanti riguardo alla teoria motivazionale, perché si è giunti a un apprendimento significativo e si è mantenuta una performance efficiente senza ricorrere a incentivi speciali o esterni”.

Che altro poteva essere?

Per rispondere a questa domanda, Harlow offrì una nuova teoria che implicava una terza motivazione: “L’esecuzione stessa del compito forniva una ricompensa intrinseca”. Le scimmie risolvevano il rompicapo semplicemente perché trovavano gratificante farlo . Si divertivano. La gioia del compito era la loro stessa ricompensa.

Se questo concetto era semplice, ciò che accadde successivamente non fece che aumentare la confusione e i problemi. Questa nuova motivazione – Harlow in seguito la chiamò “motivazione intrinseca” – forse era reale. Ma sicuramente doveva essere subordinata alle altre due. Se le scimmie fossero state ricompensate – con uva passa! – per aver risolto il rompicapo, senza dubbio la loro performance avrebbe dovuto essere migliore. Eppure quando Harlow adottò un simile approccio, le scimmie in realtà fecero molti più errori e risolvettero meno regolarmente i rompicapo. “L’introduzione del cibo nel presente esperimento” scrisse Harlow “servì a interrompere del tutto l’esecuzione del compito, un fenomeno mai riportato nella letteratura scientifica”.

Questo era veramente strano. In termini scientifici, era come fare rotolare una pallina di ferro su un piano inclinato per misurarne la velocità e vederla invece fluttuare in aria. Indicava che la nostra conoscenza delle forze gravitazionali che agiscono sul nostro comportamento era insufficiente, e ciò che ritenevamo leggi solide erano invece piene di crepe. Harlow sottolineò “la forza e la persistenza” della motivazione delle scimmie a risolvere il rompicapo. Poi notò:

Sembrerebbe che questa motivazione […] sia tanto basilare e forte quanto [le altre] motivazioni. Esiste per di più qualche ragione di credere che [questa] possa essere altrettanto efficace nel facilitare l’apprendimento.

Tuttavia, all’epoca, le due motivazioni principali occupavano una posizione dominante nel pensiero scientifico. Harlow suonò un campanello d’allarme. Esortò gli scienziati a “ripulire vaste aree del nostro ripostiglio teorico” e proporre nuove e più accurate spiegazioni del comportamento umano. Avvertì che la nostra spiegazione su perché facciamo ciò che facciamo era incompleta. Affermò che per comprendere veramente la condizione umana avremmo dovuto tenere conto di questa terza motivazione.

Poi lasciò cadere del tutto l’idea.

Piuttosto che combattere l’establishment e iniziare a offrire una teoria più completa della motivazione, Harlow abbandonò questo controverso filone di ricerca, diventando in seguito famoso per gli studi condotti nel campo della scienza degli affetti. L’idea di questa terza motivazione aleggiò nella letteratura psicologica ma rimase ai confini della scienza comportamentale e della nostra comprensione di noi stessi. Ci vollero vent’anni prima che un altro scienziato prendesse in mano il filo che Harlow aveva così provocatoriamente lasciato su quel tavolo da laboratorio del Wisconsin.

Nell’estate del 1969, Edward Deci (una foto di Deci ) era uno studente di psicologia della Carnegie Mellon University alla ricerca di un argomento per la tesi. Deci, che aveva già frequentato un MBA alla Wharton University, era affascinato dal tema della motivazione, ma sospettava che questa non fosse stata compresa appieno da studiosi e uomini d’affari. E così, strappando una pagina dal libro di Harlow, decise di studiare l’argomento con l’aiuto di un rompicapo.

Deci scelse il Cubo Soma, un famoso puzzle commercializzato all’epoca da Parker Brothers, che grazie a YouTube conserva ancora oggi una certa schiera di appassionati. Il rompicapo consiste in sette pezzi di plastica, sei composti da quattro cubi di 2,5 cm e uno da tre cubi di 2,5 cm. I giocatori possono assemblare i sette pezzi in una delle infinite configurazioni possibili, ottenendo dalle forme più astratte a quelle di oggetti più riconoscibili (Figura 1.2).

Figura 1.2: i sette pezzi del Cubo Soma: sparsi (a sinistra) e ricomposti in una delle infinite configurazioni possibili (a destra)

Per la sua ricerca, Deci divise i partecipanti, studenti universitari di sesso maschile e femminile, in un gruppo sperimentale (che chiamerò Gruppo A) e in un gruppo di controllo (che chiamerò Gruppo B). Entrambi parteciparono a tre sedute di un’ora per tre giorni consecutivi.

Ecco come si svolsero le sedute: ogni partecipante entrava in una stanza e sedeva a un tavolo su cui erano disposti i sette pezzi del Cubo Soma, disegni di tre figure possibili del puzzle e copie del Time, del New Yorker e di Playboy (era il 1969!). Deci sedeva all’altro lato del tavolo, dando le istruzioni e cronometrando il tempo della performance.

Nella prima seduta, i membri di entrambi i gruppi dovettero assemblare i pezzi del Cubo Soma riproducendo le figure poste davanti a loro. Nella seconda sessione fecero la stessa cosa con disegni differenti, e solo questa volta Deci disse al Gruppo A che sarebbero stati pagati 1 dollaro (l’equivalente di circa 6 dollari di oggi) per ogni figura che fossero riusciti a riprodurre. Al Gruppo B furono invece consegnati nuovi disegni ma niente soldi. Infine, nella terza seduta, entrambi i gruppi ebbero nuovi disegni che dovettero riprodurre senza essere ricompensati, come nella prima seduta.

Primo giorno Secondo giorno Terzo giorno
Gruppo A Nessuna ricompensa Ricompensa Nessuna ricompensa
Gruppo B Nessuna ricompensa Nessuna ricompensa Nessuna ricompensa

Il punto di svolta giungeva a metà di ogni seduta. Dopo che un partecipante aveva riprodotto due dei tre disegni assegnati, Deci interrompeva la sessione. Diceva che avrebbe dato al gruppo un quarto disegno, ma che per scegliere quello giusto doveva inserire in un computer i tempi che avevano impiegato a completare le figure. E – poiché erano i tardi anni Sessanta, quando computer mainframe grandi quanto una stanza erano la norma e mancava ancora qualche decennio alla nascita dei desktop – ciò significava che avrebbe dovuto assentarsi per un po’.

Uscendo diceva: “Me ne andrò solo per qualche minuto, potete fare ciò che volete mentre non ci sono”. Ma Deci, in realtà, non andava a inserire numeri su una vecchia telescrivente. Entrava invece in una stanza adiacente, collegata a quella dell’esperimento da un vetro a specchio unidirezionale. Poi, esattamente per otto minuti, osservava ciò che le persone facevano quando rimanevano da sole. Continuavano a giocherellare con il puzzle tentando forse di riprodurre il terzo disegno? O facevano qualcos’altro, come sfogliare le riviste, dare una sbirciata al paginone centrale di Playboy, fissare lo sguardo nel vuoto, schiacciare un veloce pisolino?

Nella prima seduta, senza grandi sorprese, non ci fu molta differenza tra ciò che fecero i membri del Gruppo A e quelli del Gruppo B in quegli otto minuti di tempo libero in cui erano segretamente osservati. Entrambi i gruppi continuarono a giocare con il puzzle, in media, tra i tre minuti e mezzo e i quattro minuti, mostrando che perlomeno lo trovavano di qualche interesse.

Nel secondo giorno, quando i membri del Gruppo A, e non quelli del Gruppo B, furono pagati per ogni disegno riprodotto con successo, coloro che non furono pagati si comportarono pressoché in modo simile a quanto avevano fatto durante il primo periodo di libertà. Ma il gruppo che fu pagato si mostrò all’improvviso veramente interessato al Cubo Soma. In media, i membri del Gruppo A passarono più di cinque minuti ad armeggiare con il puzzle, forse preparandosi in anticipo per la terza sfida o forse contemplando la possibilità di guadagnare qualche soldo per una birra quando Deci fosse ritornato. Questo è abbastanza logico, non è vero? È coerente con ciò che crediamo riguardo alla motivazione: ricompensami e lavorerò di più.

Eppure ciò che accadde il terzo giorno confermò i sospetti di Deci sul peculiare funzionamento della motivazione, mettendo garbatamente in dubbio il presupposto fondamentale della vita moderna. Questa volta Deci disse ai partecipanti del Gruppo A che c’erano soldi sufficienti a pagarli solo per un giorno e che quindi quella seduta non sarebbe stata retribuita. Le cose poi si svolsero come nei giorni precedenti: due puzzle seguiti dall’interruzione di Deci.

Nei successivi otto minuti di libertà, i soggetti del Gruppo B che non erano mai stati pagati giocarono con il puzzle un po’ di più di quanto avevano fatto nelle sedute precedenti. Forse si stavano appassionando; forse si trattava solo di un caso statistico. Ma i soggetti del Gruppo A, che in precedenza erano stati pagati, reagirono in modo differente. Ora passarono significativamente meno tempo a giocare con il puzzle, non solo circa due minuti meno di quanto avevano fatto nella seduta in cui erano stati pagati, ma quasi un intero minuto meno rispetto alla prima volta in cui era stato presentato loro il puzzle e lo avevano trovato ovviamente divertente.

Analogamente a quanto Harlow aveva scoperto vent’anni prima, Deci svelò che la motivazione umana sembrava agire secondo leggi che contraddicevano ciò che credeva la maggior parte degli scienziati e della gente comune. In ufficio come sul campo da gioco, credevamo di sapere ciò che dava una scossa alle persone. Le ricompense – specialmente il puro e semplice denaro sonante – rafforzavano l’interesse e incrementavano la performance. Ciò che Deci scoprì, e poi confermò in due ricerche supplementari che condusse subito dopo, era invece quasi l’opposto. “Quando i soldi sono usati come ricompensa esterna per qualche attività” scrisse “i soggetti perdono l’interesse intrinseco per quella attività”. Le ricompense possono dare una scossa nel breve termine, proprio come una dose di caffeina vi tiene in moto per qualche ora in più. Ma l’effetto svanisce e, ancor peggio, può ridurre la motivazione di lungo termine a continuare il progetto.

Gli esseri umani, sosteneva Deci, possiedono “una tendenza innata a ricercare novità e sfide, a estendere e mettere alla prova le proprie capacità, a esplorare e a imparare”. Ma questa terza motivazione era molto più fragile delle altre due; aveva bisogno del contesto giusto per sopravvivere. Così scrisse Deci in una ricerca successiva: “Chi è interessato a sviluppare e incrementare la motivazione intrinseca di bambini, dipendenti, studenti ecc., non dovrebbe concentrarsi su sistemi di controllo esterni come le ricompense economiche”. Ciò diede inizio a quella che per Deci sarebbe diventata la ricerca di tutta una vita: ripensare le motivazioni riguardo al perché facciamo ciò che facciamo; un’impresa che qualche volta lo mise in contrasto con i suoi colleghi psicologi, lo fece licenziare da una business school e lo portò a sfidare i presupposti vigenti nelle aziende di tutto il mondo.

“Era un fatto controverso” mi disse Deci una mattina quarant’anni dopo gli esperimenti con il Cubo Soma. “Nessuno si aspettava che le ricompense avrebbero avuto un effetto negativo.”

Drive. La sorprendente verità su ciò che ci motiva nel lavoro e nella vita è un libro sulla motivazione. Daniel Pink mostrerà che molte delle nostre credenze sono semplicemente false e ciò che qualche decennio fa Harlow e Deci iniziarono a svelare si avvicina molto alla verità. Il problema è che la maggior parte delle aziende non è stata al passo con questa nuova conoscenza di ciò che ci motiva. Troppe organizzazioni – non solo le aziende, ma anche governi e associazioni no profit – continuano a operare sulla base di assunti circa le potenzialità umane e la performance individuale che sono datati, non verificati e fondati più sulla tradizione che sulla scienza. Continuano a adottare pratiche come piani di incentivazione di breve termine e sistemi retributivi legati alla performance, nonostante la crescente evidenza che simili sistemi di solito non funzionano e spesso risultano dannosi. Ancor peggio, queste pratiche si sono introdotte nelle scuole, dove ricopriamo la nostra futura forza lavoro di iPod, denaro e buoni per la pizza per “incentivarla” all’apprendimento. Qualcosa è andato storto.

La buona notizia è che la soluzione è davanti a noi, negli studi di un gruppo di scienziati comportamentali che hanno portato avanti le ricerche pionieristiche di Harlow e Deci, e il cui silenzioso lavoro nell’ultimo mezzo secolo ci offre un’idea più dinamica della motivazione umana. Troppo a lungo c’è stato un divario tra ciò che la scienza sa e ciò che le aziende fanno.

Tratto da: Daniel H. Pink, 2010, Drive. La sorprendente verità su ciò che ci motiva nel lavoro e nella vita, Etas, Milano, pp.VII-XV, traduttore Fabio Ceresoli.

La motivazione, per un individuo, è l’energia che lo anima

Ci capita di sentirci stressati e di mettere in dubbio i nostri talenti?

Che cos’è un talento? È qualche cosa che ci fa agire nel piacere, è una capacità innata, è facilità nel fare quello che già sapevamo fare da piccoli… è un ambito in cui riusciamo bene, da quando ce ne ricordiamo! Il talento è composto da cinque componenti: fattibilità, facilità, riproducibilità, piacere, riconoscimento. Pensiamo ad un nostro conoscente talentuoso… ha queste caratteristiche?

 

Francisco Cornejo è un bancario con un’infinita passione per il calcio. Gira per i campetti di periferia in cerca di nuovi talenti da segnalare alle squadre di Buenos Aires. Quel giorno, al campetto “Las Malvinas”, arriva un bambino di 9 anni, piccolo e con una folta capigliatura nera, che chiamano “el pelusa”. Appena Diego, il “pelusa”, inizia a palleggiare col suo piede sinistro, tutti gli altri ragazzi si fermano a guardare.

Francisco lo osserva con attenzione. Gli chiede di palleggiare anche con l’altro piede. Il risultato non dà la stessa ‘magia’. Si avvicina e dà al piccolo Diego Armando Maradona il suo primo e più importante consiglio tecnico: ‘d’ora in avanti, allenerai sempre, con tutto l’impegno che puoi, il tuo piede sinistro.’

Il 22 giugno 1986 a Città del Messico, nella partita dei quarti di finale dei campionati del mondo con l’Inghilterra, Maradona segna quello che per molti è da considerare il più bel goal della storia del calcio. Con 11 tocchi consecutivi del suo piede sinistro.

 

Quante volte abbiamo messo tutta la nostra energia nel tentativo di migliorare i nostri punti deboli, anziché imparare a scoprire e continuare ad esercitare i nostri punti di forza per farci affidamento?

Siamo anche noi convinti che lavorando su un difetto esso si trasformerà in una qualità? Pensiamo alla nostra vita fino ad oggi: quante volte ci è capitato di trasformare un difetto in qualità? Se sì, con quale rapporto energia-risultato? E se invece il nostro successo fosse quello di costruire noi stessi sviluppando i nostri punti di forza? … che non significa che non si debba fare nessuno sforzo per migliorarsi, pensando: ‘Non ci provo nemmeno, tanto non ci riesco’. La domanda da porsi: questo punto debole, rispetto alla mia vita e a ciò che voglio, è fondamentale, importante, vitale o necessario? Oppure è trascurabile, inutile?

 

Se noi esercitiamo e mostriamo i nostri talenti, cosa avviene dentro di noi? Come ci sentiamo? L’autostima aumenta, ci sentiamo felici e con più energia; proprio questo ‘benessere’ traina i nostri punti più deboli.

 

Come possiamo essere consapevoli dei nostri punti di forza? Un semplice, e divertente ‘esercizio’ è quello di contattare due o tre amici, familiari e chiedere: ‘Puoi dirmi in poche parole che cosa apprezzi di me? Quali sono i miei punti di forza?’ oppure ‘Come mi presenteresti ad un amico in poche parole?’. È possibile che attraverso questo tipo di gioco si scoprano talenti a noi ‘nascosti’, perché a volte non si ha il coraggio di riconoscere le proprie qualità (e possiamo anche contraccambiare il nostro amico, la nostra amica mostrandogli/le i suoi talenti).

 

È ormai consueto sentir dire ‘prendersi cura di se stesso’… cosa significa, se non anche prendersi cura dei propri talenti!

È fondamentale fidarsi di: ciò che si ha; ciò che si è; ciò che si sa fare; ciò che si farà.

I nostri talenti sono un dono. Se non li coltiviamo, non ci sarà nessun cambiamento e i nostri punti deboli avranno campo libero per svilupparsi’.

 

Conosciamo i nostri punti di forza? I nostri talenti? Ne facciamo un uso consapevole?

 

Tratto da:
Xavier Cornette de Saint Cyr (2011). Quaderno d’esercizi per scoprire i propri talenti nascosti. Milano: Vallardi Editore

Il conflitto è padre di tutte le cose

Motivation Moves People sta preparando un training sulla gestione del conflitto.
Che cosa è, per noi, un conflitto? Perché ciò che conta è come ognuno di noi lo vive e di conseguenza lo definisce.

L’etimo della parola conflitto deriva dal latino, dal verbo cum-fligere, il quale se è inteso in senso intransitivo significa scontro, se inteso in senso transitivo significa incontro. Anche la parola conflitto ci mostra che tutto ha almeno due facce: una parola che contiene al suo interno due significati, apparentemente opposti. La parola conflitto non contiene il significato di evitare. Quante volte abbiamo sentito che anche relazioni personali sono naufragate perché il marito, la moglie evitavano lo scontro… Cosa significa questo? A noi la scelta di come viverlo: scontro o incontro?

Se diventassimo degli aikidoka (cioè praticante dell’aikido) del conflitto? Il termine Aikido è composto da tre ideogrammi che significano: (AI) armonia-amore, (KI) spirito-essenza-energia, (DO) via-metodo; la via dell’armonia attraverso l’energia è l’essenza di questa arte marziale cosiddetta morbida. ”Lo scopo dell’Aikido non è vincere sull’altro. È una via per armonizzare il mondo e farne un’unica famiglia.” Per l’aikido è chiaro che dove c’è un vincente, c’è un perdente, che cercherà di ribaltare il risultato e che, quindi, alla fine, chi vince perde.

Quante volte pensiamo che la causa del conflitto sia l’altro? E l’altro pensa che siamo noi? Siamo abituati a pensare in termini di causa-effetto. Questa logica non funziona per le persone e ancor meno se pensiamo ai conflitti. Il conflitto produce rabbia, odio, risentimento… e spesso diamo la colpa di queste emozioni e la responsabilità del nostro malessere all’altro. Vogliamo veramente rifiutarci di assumerci la responsabilità delle nostre emozioni? Non siamo forse co-creatori delle emozioni e, anche, dei conflitti? La parola emozione, dal verbo latino moveo (muovere) con il prefisso e (movimento da), significa ‘impulso ad agire’. Le emozioni hanno aiutato l’essere umano a sopravvivere e ad evolvere.

Prendiamo carta e penna e rispondiamo a queste 3 domande.

  1. Pensiamo ad una emozione che ci è capitato di sperimentare in un conflitto; descriviamola, dandole un nome (ad esempio, rabbia per essere stato offeso dal mio collega).
  2. Adesso individuiamo in quale parte del corpo sentiamo questa emozione (ad esempio, prurito alle mani, mascella serrata…).
  3. Descriviamone la forma, il calore, il peso (ad esempio, quadrata, bollente, 10kg).

Queste tre domande ci aiutano ad essere ancora più consapevoli delle nostre emozioni. Pensiamo ad emozioni come paura, disgusto, felicità, vergogna… quale parte del corpo si attiva per ogni emozione? Per ognuna di esse abbiamo una differente reazione sia fisica sia mentale. Un gruppo di ricercatori finlandesi ha costruito una mappa delle emozioni del corpo umano. La mappa (vedi immagine sopra) mostra una scala di colori che si riferisce a dove sentiamo le emozioni nel corpo a seconda del sentimento che proviamo. Ad esempio, sentiamo ovunque la felicità, la paura nel petto.

La mappa mostra le sei emozioni primarie, o di base (sopra) e sette emozioni secondarie (sotto) così come lo stato neutrale. La mappa è un modello affidabile, culturalmente universale, di come il nostro corpo reagisce ad ogni emozioni.  Come già disse Marco Aurelio nel 150 d.C. l’anima assume il colore dei suoi pensieri.

Ora che abbiamo una immagine delle emozioni, riconosciamo le emozioni come energia, e siamo consapevoli di essere co-creatori delle nostre emozioni, a noi la scelta di come muoverle. Possiamo usarle per mostrare la nostra convinzione di essere nel giusto, attaccare e mantenere vivo il conflitto, oppure possiamo riconoscere i segnali fisiologici, identificarli, connetterli con i sentimenti, con le azioni, capire anche ciò che l’altro prova ed uscire dalla logica causa effetto e reazioni automatiche.

Non possiamo eliminare od evitare il conflitto. Anzi… il conflitto è ricco di potenziale creativo. Come diceva Eraclito, il conflitto è padre di tutte le cose. Ed essendo padre di tutto, possiamo, riusciamo a vedere il conflitto come uno stimolo, una opportunità, qualche cosa di energico, appassionante, creativo e coinvolgente?

A noi la scelta di gestirlo! Per provare, simulare, migliorare la gestione del conflitto… ci vediamo in aula!

 

Tratto da:

Fragomeni Tiziana (2016). Surfando il conflitto. Franco Angeli

Nummenmaa, L., Glerean, E., Hari, R., & Hietanen, J. K. (2014). Bodily maps of emotions. Proceedings of the National Academy of Sciences, 111(2), 646-651.

Andiamocene altrove

Andiamocene altrove’… non è una indicazione geografica, è una indicazione esistenziale. Andiamo altrove, da quella convinzione che bastano i soldi per essere felici, che per essere felici bisogna essere famosi e belli. Anche se fossimo ricchi, belli e famosi ma fossimo privi del nostro perché, della nostra motivazione, saremmo come un magnifico guscio “vuoto”.

Andiamocene altrove … dal sogno dell’onnipotenza. Dall’idea che il manager, il capo risolva tutto… sia uno che fa tutto. Ci è mai successo di vivere, osservare questa situazione?
‘Una collaboratrice è alle prese con un problema e ci chiede di aiutarla. Noi capiamo di cosa si tratta, lo risolviamo e le diciamo cosa fare. Siamo felici di aver dato prova delle nostre capacità e lei è contenta che il problema sia stato risolto. Un altro membro della squadra, vedendo che siamo dell’umore giusto, decide di presentarci un altro problema spinoso. Oggi è proprio il nostro giorno: sistemiamo anche quella questione e facciamo felice un altro dipendente. Nel corso della giornata si è rivolto a noi ogni singolo collaboratore e ora della fine ci siamo procurati la fama di risolutore abile, disponibile e deciso.’ Congratulazioni, abbiamo fallito! Fallito? Ma se abbiamo risolto un problema dopo l’altro!
Perché? Anziché togliere loro di dosso il problema, avremmo dovuto aiutarli a capire come affrontarlo per conto proprio. Sul lungo termine, noi e la nostra squadra riusciremo a ottenere molto di più se ciascun membro saprà come affrontare ‘il problema’ che molto probabilmente incontrerà sul suo cammino.

Andiamocene altrove… dagli altri. L’uomo ha bisogno di confrontarsi con i grandi confini esistenziale, ambientali, mentali. Confronti che ci portino al di là del nostro piccolo spazio esistenziale. Confronti che ci fanno anche ‘arrabbiare’ perché minano le nostre certezze, le nostre sicurezze. La vera forza è sia saper vivere insieme i frammenti che ognuno di noi è, sia mettere assieme i frammenti di ognuno. Quante volte abbiamo sentito: ‘Chi fa da sé, fa per tre’, ‘Meglio soli che mali accompagnati’: veramente motivano? E la forza del gruppo?
La risorsa di ognuno di noi diventa forza se condivisa. Diversamente è illusione.
Lo psicologo e studioso di gruppi e creatività Keith Sawyer afferma che la chiave per capire l’innovazione è rendersi conto del fatto che le reti collaborative contano più della creatività individuale. Le persone creative hanno un ruolo importante, in quanto sono gli elementi attivi della rete. Nell’economia attuale l’azione si svolge soprattutto in rete, dove il potenziale creativo di ciascuno si accresce, cosicché l’insieme è maggiore della somma delle parti. Da un gioco da tavolo a una complessa invenzione elettronica, dalla mountain bike al telegrafo, alla teoria dell’evoluzione, ogni innovazione emerge da una fitta rete di collaborazioni. Sempre secondo Sawyer: ‘I manager devono lasciare che l’innovazione emerga da una rete che include la propia azienda, i propri clienti, i propri fornitori e perfino i concorrenti. Per gran parte del XX secolo l’innovazione è stata dominata da grandi corporazioni fornite di imponenti laboratori di ricerca, ma quell’epoca è finita. Le imprese di successo fanno ancora grossi investimenti in ricerca e sviluppo, ma collaborano sempre di più in reti collaborative, specialmente con piccole aziende e iniziative ad alto potenziale’.

Andiamocene altrove … regalandoci del tempo per stare in silenzio. Tempo per stare in disparte, per pensare. Regaliamoci del tempo per noi. L’elogio della lentezza (solo con i ritmi normali il cervello torna a creare), del tempo liberato, gratuito, per stare con altri, per guardarsi in faccia, per fare qualche cosa di ‘inutile’. Tempo liberato dall’ossessione di fare sempre qualche cosa di utile; la vera utilità è essere signori del tempo, prendersi gioco del tempo e regalarsi del tempo. Quante volte sentiamo ‘NON HO TEMPO’. Non è vero! A Noi la scelta! Regaliamoci del tempo.

 

Spunti tratti da:

Sawyer Keith (2012). La forza del gruppo. Il potere creativo della collaborazione, Giunti Editore.
Jo Owen (2014). Coaching per manager. Franco Angeli, Milano.