Da dove viene la motivazione?

«Un manager di nome Tom arrivò in anticipo a un nostro seminario sulla leadership. Era vestito con una polo verde oliva e pantaloni sportivi bianchi con la piega, e sembrava pronto per andare a giocare a golf.

Il golfista si avvicinò e disse: ‘Il vostro corso non è obbligatorio, quindi non penso che parteciperò’.

‘Va bene, e mi chiedo perché è arrivato in anticipo per dircelo: ci sarà qualcosa che vuole sapere’.

‘In effetti è così’, confessò. ‘Tutto quello che voglio sapere è come ottenere migliori risultati dal mio team commerciale. Come faccio a guidarli?’

‘È tutto quello che vuole sapere?’

‘Sì, esattamente’, affermò il manager.

‘Allora le possiamo far risparmiare un sacco di tempo e arriverà in orario per la partita di golf’.

Tom si protese in avanti, pronto ad ascoltare le sagge parole che lo avrebbero reso capace di dirigere i suoi collaboratori.

Gli dicemmo: ‘Non può’.

‘Come?’

‘Lei non può guidare nessuno. Quindi vada pure e faccia una bella partita.’

‘Cosa state dicendo?’ chiese il manager. ‘Pensavo che teneste seminari sulla motivazione, cosa vuol dire non posso?’

‘Certo che teniamo seminari su questo argomento, ma una delle prime cose che insegniamo ai manager è che non possono controllare direttamente i loro collaboratori. La motivazione scaturisce sempre dai dipendenti stessi, non da loro’.

‘E allora cosa insegnate?’

‘Insegniamo come far sì che le persone si motivino da sé. Questa è la chiave. Questo è ciò di cui discuteremo stamattina’.

Il manager mise in tasca le chiavi della macchina e si sedette in prima fila per il resto del seminario.»

Steve Chandler e Scott Richardson (‘100 regole per motivare gli altri’) riassumono uno dei principi chiave di Motivation Moves People: non possiamo motivare gli altri ma fornire loro stimoli per automotivarsi.

7 secondi: “Non c’è una seconda occasione per fare una buona prima impressione” Oscar Wilde

Ognuno di noi sa quanto sia importante la prima impressione. Sappiamo che la ‘prima impressione’ avviene nei primi sette secondi del nostro incontro con lo ‘sconosciuto’? Questa decisione non è un processo conscio, anzi noi non lo ‘realizziamo’ nemmeno. Trova le sue radici in quei processi ‘primitivi’ quando una decisione sbagliata costava la vita.

Abbiamo già visto l’importanza dell’abito e quanto questo possa incidere anche durante un colloquio di assunzione (tra due persone con competenze simili e risultati simili, spesso è l’abbigliamento che fa propendere per l’uno o l’altro).

Immaginiamo di incontrare una persona per la prima volta… e di avere pochissimo tempo per presentarci (il tempo di una corsa in ascensore, dal primo al quinto piano) e di voler fare una ottima impressione. Perché la prima impressione rimane… nel bene e nel male. Abbiamo mai pensato: ‘quella persona a pelle non mi piace?’ Questo pensiero quanto ha influenzato i nostri successivi rapporti?

Prima di parlare, sorridere e silenzio. L’espressione facciale è molto importante quando si tratta di fare una buona impressione.
In Italia il contatto visivo col sorriso è probabilmente il componente più prezioso di una buona comunicazione (diversamente, in Giappone o in Niger il contatto visivo viene percepito come sfida o mancanza di rispetto, soprattutto se le persone appartengono a classi sociali differenti o ricoprono ruoli di diversa importanza).
Il silenzio iniziale mostra sicurezza. Possiamo impressionare positivamente, mostrando quindi consapevolezza e confidenza del nostro linguaggio non verbale e para-verbale. Come disse il filosofo americano Emerson: ‘Ciò che sei parla così forte che non sento ciò che mi stai dicendo’.

Come iniziare a parlare? Se una persona comincia la presentazione di sé stesso in modo serioso e dice: ‘sono un avvocato, mi sono laureato nel…’, lo stiamo ascoltando ancora in modo attento? Quante volte abbiamo sentito persone iniziare con ‘allora…’, ‘beh…’, ‘insomma…’. È veramente il miglior modo per iniziare? Cosa è meglio: improvvisare o essere sempre pronti ad un ‘incontro in ascensore’? Non perché l’incontro avviene all’improvviso significa che il discorso non possa essere preparato. Come disse Zig Ziglar: Il successo arriva quando l’opportunità incontra la preparazione. Il nostro ‘elevator speech’ (discorso da ascensore) di 1 o 2 minuti, è pronto e aggiornato? Sappiamo rispondere in 2 minuti massimo, in modo coinvolgente lasciando una buona impressione, a domande come: ‘Cosa fai?’, ‘Quali sono le novità del tuo lavoro?’, ‘Con chi stai lavorando?’…

Per fare una buona prima impressione, è consigliabile coinvolgere l’altra parte nella conversazione, ascoltarla attentamente e usare poi le sue parole per proseguire con l’argomentazione. È antropologico: l’essere umano pensa in primo luogo a sé stesso e le proprie parole, così come il proprio nome, sono le più belle che ci siano. Un esempio proprio considerando questo ‘principio’: anziché dire ‘sono un avvocato, mi occupo di … ’, al fine di coinvolgere l’altro si potrebbe fare una domanda come: ‘se un suo conoscente fosse avvocato, cosa gli chiederebbe?’. L’ascolto della sua risposta e la ripetizione di alcune sue parole diventano ponte per il nostro discorso caratterizzato da un linguaggio chiaro, un tono e volume ‘contenuti’ (anche se siamo eccitati dall’idea di parlare con quella persona), prestando attenzione alle parole che si usano.
I discorsi che coinvolgono sono quelli che iniziano con domande per attirare l’attenzione dell’interlocutore, sono quelli che creano aneddoti e storie, quelli che hanno anche dello humor.

La miglior conclusione di un discorso consiste nel trasformarlo in un dialogo: creare nell’altro quella giusta confidenza, quella sensazione di voler sapere di più da noi, di voler conoscersi meglio, di voler creare un appuntamento con noi.

Abbiamo visto il film ‘Alla ricerca della felicità’ di Gabriele Muccino?
Qui un esempio di prima impressione…
[In strada, si parcheggia una Ferrari, Chris (Willy Smith) parla col proprietario]
Chris: Uhh però… Senta avrei due domande da farle. Che lavoro fa? E come si fa?
Broker: … faccio il broker.
Chris: Serve una laurea per diventare broker?
Broker: No, non serve. Devi essere bravo coi numeri e a trattare con la gente.
Chris: Sii?
Broker: Tutto qui.
Chris: Grazie, ci vediamo. Ehi le faccio usare la macchina per il week-end, però lunedì la rivoglio…
Broker: Paga il parcheggio… 

Tratto da:

Wargo, E. (2006). How many seconds to a first impression?. APS Observer, 19(7).

https://nosweatpublicspeaking.com/

Come ci vestiamo al lavoro? “Non c’è una seconda occasione per fare una buona prima impressione” Oscar Wilde

Oscar Wilde rende poetica la forza della prima impressione. Un detto popolare italiano: ‘l’abito non fa il monaco, ma lo veste… da mattina a sera’ mostra la forza del vestito.

Cosa significa? Sono ancora vere le linee guida dettate nel ‘Dress for Success’ scritto da J. Molloy nel 1975? Anche il vestito comunica, anche il vestito crea la prima impressione.

Può il nostro modo di vestire influenzare gli altri? E influenzare il nostro modo di lavorare?
In un mondo dove anche Marchionne ha il maglioncino, Zuckerberg felpa e jeans, possiamo toglierci giacca e cravatta o tailleur? Perché ci viene ripetuto che è meglio essere vestiti ‘dress up’ che ‘dress down’?

La ricerca (Kraus e Mendes, 2014) mostra che indossare abiti più belli (abiti formali vs. abiti casual) aumenta il livello di fiducia (e anche il livello di testosterone, ormone presente nel comportamento-posizione sociale di dominanza), influenza il modo in cui gli altri percepiscono chi lo indossa e, in alcuni casi, aumenta il livello di pensiero astratto-cognitivo. Coloro che vestono abiti formali diventano consapevoli del rispetto che ricevono e diventano ‘più forti’. Anche per la donna la giacca dà un tocco di autorità; e quando è importante, anche il tacco fa la sua parte per l’autorevolezza.

Zuckerberg e Marchionne vestono una ‘divisa’ e sono degli outliers, oltre che CEO delle rispettive aziende. Se consideriamo il braccio destro di Zuckerberg, Sheryl Sandberg, pur lavorando anche lei nel mondo giovanile di Facebook, si veste con svariati outfit mostrando sempre rispetto e autorità, e mai in felpa con i jeans.

In altre parole, le persone attraenti ottengono risultati migliori in tutti i ceti sociali; e per una persona che vuole essere eletta in una carica pubblica, è ‘importante’ avere una faccia che sembri competente, ad esempio con gli occhiali (gli altri reputano la persona con occhiali ‘intelligente’).

Molti call center oggi conoscono quello che gli psicologi definiscono Enclothed Cognition: il fenomeno per cui indossare un abito, piuttosto che un altro, esercita una discreta influenza sulla percezione che abbiamo di noi stessi. I ricercatori Hajo Adam e Adam Galinksy, della Northwest University, hanno pubblicato uno studio in cui dimostrano quanto i vestiti possano modificare l’attenzione. In conclusione l’abbigliamento ha effetto non solo sugli osservatori, ma anche sugli stessi attori sociali, ovvero portare un certo abito può avere un effetto sui processi psicologici della persona che li indossa. Ecco scoperto il perché molti lavoratori al call center, pur non avendo un rapporto fisico e visivo con il cliente, sono vestiti in modo elegante.

Ora come siamo vestiti? È molto probabile che se indossiamo abiti casual saremo più rilassati come pure la nostra voce lo sarà; e se siamo vestiti appositamente per un incontro importante, in modo più formale del solito, anche il nostro modo di parlare e di camminare sarà alterato. Se vogliamo sentirci più sicuri di noi, più forti, pronti per raggiungere un nuovo traguardo al lavoro… la tuta (o i pantaloni di yoga) non è il miglior abito!

Come dice un proverbio cinese: “Si rispetta l’abito, anche se non si rispetta l’uomo”.

 

Tratto da:

https://www.wsj.com/articles/why-dressing-for-success-leads-to-success-1456110340

http://www.ilsole24ore.com/art/management/2016-09-27/l-abito-non-fa-monaco-tuttavia-contribuisce-fare-manager-103139.shtml?uuid=ADxuGmRB

Kraus, M. W., & Mendes, W. B. (2014). Sartorial symbols of social class elicit class-consistent behavioral and physiological responses: a dyadic approach. Journal of Experimental Psychology: General143(6), 2330.

Adam, H., & Galinsky, A. D. (2012). Enclothed cognition. Journal of Experimental Social Psychology48(4), 918-925.

 

Il prossimo blog: ‘7 secondi: “Non c’è una seconda occasione per fare una buona prima impressione” (Oscar Wilde)’.

 

Cosa comunichiamo? Come lo facciamo?

Sempre più si enfatizza l’importanza della comunicazione. Cosa è la comunicazione? Cosa significa comunicare? Perché comunicare? Già Dale Carnegie negli anni ’30 evidenziò che la realizzazione personale, sia nella sfera lavorativa  sia in quella privata, dipende in larga misura dalla nostra capacità di comunicare con chiarezza chi siamo, che cosa desideriamo, in cosa crediamo.

Tutti noi abbiamo sentito che la comunicazione tra due persone è costituita da tre parti: verbale (7%), non verbale (55%), paraverbale (38%). Questa formula fu pubblicata nel 1968 da Albert Mehrabian su Psychology Today Magazine.

Cosa significa? Come possiamo usare questo dato scientifico concretamente?

Comunicazione verbale (7%). Abbiamo mai prestato veramente attenzione alle parole che usiamo quando parliamo con un’altra persona? Potremmo sfidare noi stessi quest’oggi ed ascoltarci. E a fine giornata fare un resoconto: quante parole ambigue, parole con connotazione negativa, parole con connotazione positiva abbiamo usato?

Tante volte abbiamo ascoltato frasi, anche in ambito personale, che ‘chiudono’, come: ‘non hai capito’, ‘non è vero’, ‘mai’. Come ci sentiamo quando ci vengono rivolte queste parole?
Come vorremmo sentirci, invece? Ogni essere umano ha bisogno di essere ascoltato, compreso e appoggiato nelle sue aspettative ed esigenze. Noi abbiamo la scelta di trasformare queste frasi. Ad esempio, da ‘non hai capito’ a ‘non mi sono spiegato’; da ‘non è vero’ a ‘è vero anche’; da ‘mai’ a ‘certe volte’.
C’è un video che riassume in modo brillante il potere delle parole: https://www.youtube.com/watch?v=_IQ9zGENVO0

Comunicazione para-verbale (38%). Si intende il tono, il volume della voce e il ritmo delle parole.
Cosa comunica il tono della voce? Leggiamo questa frase: ‘Sarebbe utile che mi inviasse la email prima della fine della settimana’. Ora accentuiamo in modo differente le parole evidenziate in grassetto: ‘Sarebbe utile che mi inviasse la email prima del fine settimana’, ‘Sarebbe utile che mi inviasse la email prima del fine settimana’ ‘Sarebbe utile che mi inviasse la email prima del fine settimana’, ‘Sarebbe utile che mi inviasse la email prima del fine settimana’. Cosa cambia? Che effetto produce sulla persona che ci ascolta il tono, il dare enfasi alle parole anche con il volume? In una comunicazione quotidiana una scelta vincente è quella di adeguare inizialmente il nostro tono e volume con quelli dell’interlocutore, e poi ‘guidare’ l’altro al nostro, con leggeri cambiamenti.
Saper adattare il nostro ritmo delle parole al ritmo dell’interlocutore mostra la nostra empatia, una caratteristica della nostra intelligenza emotiva.

Comunicazione non verbale (55%). Si intende gesti, espressione e prossemica.
Quante volte ci hanno detto di non incrociare le braccia mentre parliamo perché questo mostra la nostra chiusura nei confronti dell’altro? È vero? Quanti di noi lo fanno perché in realtà si sentono a loro agio?
La domanda che forse sarebbe meglio porsi, è: cosa percepisce l’altro se, quando parliamo con lui/lei, noi abbiamo le braccia conserte? È il miglior modo di far comunicare il nostro corpo?
Al contrario di quanto afferma la saggezza popolare, non esiste un singolo segno del corpo che ci aiuta a scoprire l’inaffidabilità dell’altro. Piuttosto è necessario cercare quattro indizi insieme per prevedere con maggiore precisione se qualcuno è degno di fiducia o meno. Alcuni studiosi del MIT e di Cornell, guidati da David DeSteno, hanno scoperto che scostarsi dall’altro + toccarsi le mani + accarezzarsi il mento + incrociare le braccia sono indicatori di non affidabilità, detta in altre parole, l’altra persona non si fida di colui/colei che mostra questi segnali, si aspetta di essere ‘tradita’.

Quando sorridiamo mentre comunichiamo, cosa avviene? L’altro, tendenzialmente, come ci risponde?
Secondo Alicia Grandey e i suoi colleghi, il modo con cui si sorride ha un effetto positivo sul prossimo. La studiosa ha analizzato la relazione tra sorriso di colei-colui che lavora alla reception e soddisfazione del cliente. Ha scoperto che: c’è maggiore soddisfazione del cliente quando l’addetto-a al ricevimento sorride perché svolge con sollecitudine il suo compito (rispetto al sorriso, percepito dal cliente meno autentico, di quando l’addetto-a svolge con svogliatezza il compito).
In altre parole, il sorriso autentico porta maggiore soddisfazione nell’altro.
Immaginiamo, ora, di essere seduti in uno scompartimento sul treno. È probabile che compiamo atti per dissuadere altri ad entrare o a sedersi vicino a noi: ad esempio, mettendoci in piedi e rovistare nei bagagli sulle cappelliere proprio al momento in cui il treno sosta nelle stazioni, oppure disseminando borse e valigie su tutti i posti disponibili. Perché? Vogliamo preservare il nostro spazio vitale o prossemico, cioè la nostra bolla di sapone che ci avvolge (la distanza in base a cui l’uomo regola i rapporti interpersonali). Nella cultura italiana la bolla si estende in ogni direzione per circa 70 cm. – 1 metro. Ogni tentativo di entrare nella bolla, provoca una pressione che viene avvertita come fastidiosa o sgradevole. Noi come ci comportiamo con le bolle degli altri? Ne abbiamo cura?

Cosa possiamo fare da domani? Prestiamo attenzione a questi componenti della nostra comunicazione.
Il primo passo per comunicare meglio è ascoltarci e osservarci!

 

Spunti tratti da:

DeSteno, D. (2014). Who Can You Trust?. Harvard Business Review, 92(3), 112-115.

Grandey, A. A., Fisk, G. M., Mattila, A. S., Jansen, K. J., & Sideman, L. A. (2005). Is “service with a smile” enough? Authenticity of positive displays during service encounters. Organizational Behavior and Human Decision Processes, 96(1), 38-55

 

Il prossimo blog: “Non c’è una seconda occasione per fare una buona prima impressione” (Oscar Wilde).